La visione buddhista
della sanità mentale, che fondamentalmente è in ogni uomo, viene descritta
da Han De wit, professore all Dipartimento di Psicologia Teoretica
dell'Università di Vrije, Amsterdam all'interno di quella tendenza che egli
definisce "psicologia contemplativa" e che cerca di armonizzare e far
dialogare le scienze psicologiche e le vie religiose, senza confonderne i
relativi ambiti e scopi. Il testo è tratto dagli atti dell prima conferenza
internazionale sulla Psicoterapia, la Meditazione e la Salute tenuta nel
marzo 1990 a Noordwijkerhout, Paesi Bassi.
E' molto eccitante esplorare
la relazione fra terapia, meditazione e salute. Sappiamo che per vari motivi
le relazioni fra questi tre termini sono molto complicate. Lasciate che vi
accenni due di questi motivi a titolo di introduzione alle argomentazioni
che desidero presentare.
Prima di tutto, non sembriamo essere in possesso di definizioni chiare e
univoche dei tre termini sopra citati. Le definizioni di terapia sono
numerose quanto le terapie stesse. Ci sono varie tecniche di meditazione e
anche il concetto di salute è visto in modo diverso a seconda della
disciplina - medica, psicologica o sociale - nella quale esso è inserito.
Ciò di per sé rende già difficile specificare la relazione fra le nozioni di
terapia e meditazione e stabilire il loro valore e scopo in rapporto alla
salute.
In secondo luogo, c'è un'altra
ragione, ancora più importante, che rende difficile valutare le relazioni tra
psicoterapia e meditazione. Infatti, sebbene entrambe la psicoterapia e la
meditazione siano in rapporto con le esperienze di vita e quelle mentali degli
esseri umani, esse sono espresse in linguaggi del tutto diversi.
I concetti della psicoterapia sono enunciati nel linguaggio della tradizione
scientifica, mentre i concetti di meditazione sono espressi nel linguaggio della
tradizione contemplativa.
Nella nostra cultura occidentale, la tradizione scientifica e quella
contemplativa sono due cose ben distinte. Esse hanno sviluppato modi diversi di
parlare della realtà, dell'uomo e della mente. La scienza occidentale, che
comprende la psicologia scientifica, si è "emancipata" - e in parte per buoni
motivi - dal contesto religioso al quale tuttora appartengono le tradizioni
contemplative. Quale risultato di tale "emancipazione", non sembra esistere un
linguaggio comune che ci permetta di parlare di psicoterapia e meditazione senza
distorcere in un modo o in un altro il significato di questi termini. Sembriamo
essere costretti a usare una terminologia psicologica standard quando parliamo
di meditazione, oppure ci troviamo confrontati e confusi dalla terminologia
alquanto sconosciuta o addirittura esoterica che le tradizioni contemplative
usano quando si riferiscono alla mente e alla meditazione. Vi faccio alcuni
esempi. Il significato di un termine come "ego", quando usato in numerose
psicoterapie, è molto diverso dal significato del termine quando usato in alcune
tradizioni meditative. Il termine "coscienza" (il conscio) ha un significato
specifico in molte delle psicoterapie e in particolare nella psicanalisi, mentre
questo stesso termine, se usato nelle tradizioni contemplative, trova il suo
significato nella pratica della meditazione e delle altre discipline spirituali
che generalmente sono sconosciute agli psicologi accademici. Inoltre, la maggior
parte delle tradizioni contemplative sostengono che è necessario conoscere se
stessi, e in particolare la propria mente, per poter conoscere la realtà ultima
o assoluta. Ciò che tali tradizioni intendono con "conoscere se stessi" o
"conoscere la mente" è spesso però molto diverso da ciò che intendiamo
convenzionalmente; e sono molto diversi anche i metodi delle discipline
spirituali che dovrebbero portare a quel tipo di conoscenza. E questi sono solo
alcuni esempi.
Quindi, sebbene nelle tradizioni contemplative troviamo una terminologia
apparentemente conosciuta, il vero significato di questa terminologia è stato
elaborato e influenzato dalla funzione o scopo specifico della terminologia
stessa. Tale funzione è quella di dirigere il nostro progresso sul sentiero
spirituale. Dobbiamo analizzare e valutare il cambiamento di significato della
terminologia psicologica per costruire un linguaggio comune: un linguaggio che
sia psicologico nel senso convenzionale e che incorpori nello stesso tempo
l'approccio e la visione che troviamo nelle tradizioni contemplative delle
religioni del mondo. Come è possibile fare ciò?
Sviluppare un linguaggio
psicologico comune
Un approccio che sembra essere incoraggiante è quello di portare alla luce e
rendere quindi visibile il tipo di ragionamento psicologico che è celato nelle
stesse tradizioni contemplative. Come prima cosa dovremmo lasciar parlare le
tradizioni contemplative di questioni psicologiche e ascoltare attentamente.
Bisognerebbe quindi cercare di riassumere ciò che è stato detto in una teoria
semanticamente chiara e sintatticamente coerente. In questo modo potremmo
giungere a una psicologia che potremmo chiamare "psicologia contemplativa" (De
Wit 1986, 1990).
Naturalmente, non tutte le tradizioni religiose hanno una terminologia
altrettanto completa per parlare della mente e delle sue funzioni. Esse
differiscono in questo senso. Comunque, troviamo senza dubbio una terminologia
psicologica innata in tutte le grandi religioni, anche se essa è molto diversa
dalla terminologia che usiamo nella psicologia accademica o nella psicoterapia.
Psicologia contemplativa
Come ho già accennato nella maggior parte delle grandi tradizioni spirituali c'è
una comprensione e conoscenza di come procedere e seguire il sentiero
contemplativo. Tale comprensione e conoscenza hanno chiaramente un carattere
psicologico: esse sono intese ad aiutare il praticante a usare la propria mente
ed esperienza in modo concreto nel percorrere il sentiero spirituale.
Chiariscono le fasi e gli stadi - gli ostacoli e le sfide che fanno parte del
sentiero - verso la percezione della natura ultima della realtà e verso il
riconoscimento della natura della mente. La comprensione psicologica e i metodi
che troviamo nelle tradizioni contemplative vengono definiti "psicologia
contemplativa".
La psicologia contemplativa riassume la comprensione acquisita da generazioni di
praticanti di meditazione e di altre discipline spirituali. Ogni grande
religione sembra avere una propria psicologia contemplativa. Tutte le psicologie
contemplative hanno lo stesso oggetto: l'Uomo. Per questo motivo tutte
condividono una serie di visioni, molto più di quanto condividano le teologie
delle varie religioni, poiché la moltitudine di dei e princìpi divini che sono
presenti nelle religioni fa sì che ogni teologia cambi notevolmente. Come ha
confermato il dialogo interreligioso, è molto difficile trovare una base
teologica comune. La visione antropocentrica della psicologia contemplativa
rappresenta comunque una parte integrante e necessaria della visione teocentrica
della teologia: la visione antropocentrica offre naturalmente del terreno comune
fra le diverse psicologie contemplative delle varie religioni. Ecco perché
possiamo parlare di una psicologia contemplativa generale. In alcune religioni
questa psicologia è stata formulata in modo esplicito, mentre in altre
tradizioni è usata implicitamente e la loro comprensione psicologica è attiva
solo come "conoscenza tacita" (Polanyi, 1958). Nel caso del Buddismo la
psicologia è stata riassunta in una forma schematizzata ed esplicita che
contiene una teoria della mente. Anche i metodi spirituali e le discipline sono
stati schematizzati in ciò che oggi potremmo definire una metodologia
contemplativa per lo studio della mente, dell'attività mentale e
dell'esperienza.
Nozioni chiave della psicologia
contemplativa
Una delle nozioni principali che troviamo in quasi tutte le tradizioni
contemplative è quella di un "sentiero" o "viaggio" o "via" spirituale. La
metafora del sentiero indica come il nostro modo di essere e di vivere la realtà
cambia e che tale cambiamento si muove in una certa direzione. Tale direzione
può portare, con l'aiuto delle discipline spirituali, a ciò che le tradizioni
contemplative considerano la realizzazione ultima della vita umana. L'aspetto
psicologico di questa realizzazione può essere definito salute "assoluta" o
"ultima".
Tutte le tradizioni contemplative sottolineano il fatto che senza la pratica di
queste discipline spirituali la direzione del nostro modo di essere e di vivere
la realtà è più o meno lasciata al caso. Le vicissitudini della vita possono
farci arrabbiare oppure renderci dolci, vanitosi o onesti, timorosi o
coraggiosi, sognatori o realistici, cinici o tolleranti. Sia che intraprendiamo
il cosiddetto viaggio spirituale oppure no, in ogni caso la nostra esperienza
della realtà, il nostro atteggiamento nei confronti della vita cambia nel tempo.
Proprio come la nostra (esperienza della) realtà in cui abbiamo vissuto da
bambini è finita e cambiata in ciò che viviamo oggi quale (la nostra) realtà,
allo stesso modo la nostra esperienza presente della realtà finirà e cambierà in
ciò che in futuro chiameremo la (nostra) realtà, la nostra esistenza. Le
tradizioni contemplative sostengono di essere in grado di guidare questo
cambiamento attraverso la pratica spirituale. In altre parole, esse sostengono
di poterci guidare attraverso una sequenza di stadi dell'essere e del vivere che
alla fine conduce a ciò che considerano il traguardo ultimo.
Sebbene le tradizioni sostengano formulazioni teologiche diverse del traguardo
ultimo, esse si trovano in concordanza nel formularlo in termini psicologici
contemplativi; il sentiero dovrebbe condurci verso un modo di essere che si
manifesta in compassione o amore assoluto per il mondo, unito alla visione
profonda o saggezza. L'unione di compassione e visione profonda comporta la
libertà da qualsiasi forma di ira e ignoranza verso la realtà e la natura umana.
La psicologia contemplativa potrebbe quindi essere definita come una psicologia
dello sviluppo spirituale. Lo sviluppo a cui si riferisce non è necessariamente
in relazione all'età cronologica, come nel caso descritto in "Gli stadi della
fede di Fowler" (Fowler 1981). Il suo approccio è radicato nella psicologia
della tradizione scientifica della ricerca sperimentale. Lo sviluppo a cui fa
riferimento la psicologia contemplativa consiste piuttosto nell'attraversare una
serie di stadi di dedizione e realismo nei confronti della vita umana per mezzo
delle discipline contemplative. Questi stadi rispecchiano livelli di maturità
spirituale.
La realtà personale come esperienza concettualizzata
La comprensione del sentiero come sequenza di più realtà che viviamo ha
implicazioni di vasta portata sulla nostra visione di salute. Infatti essa
suggerisce un concetto relativo della salute che è connesso all'esperienza della
realtà che appartiene a uno stadio particolare lungo il sentiero contemplativo.
Cerchiamo di rendere un pò più chiaro questo concetto di "realtà che viviamo".
Tutte le realtà che viviamo lungo il sentiero contemplativo hanno una loro
struttura empirica.Queste strutture empiriche vengono create concettualizzando
l'esperienza in un certo modo.
L'esperienza concettualizzata ci presenta ciò che potremmo chiamare "il mondo
come lo conosciamo", cioé il mondo o ambiente come pensiamo che sia.
Psicologicamente parlando, questo mondo come lo conosciamo è la realtà nella
quale viviamo. Ogni aspetto di questo mondo è determinato dalla nostra
cognizione (sia corretta che scorretta). Quindi, le realtà che viviamo sono
mentali nel senso che sono create dalla nostra mente o atteggiamento mentale. Ad
esempio, un aspetto dell'esperienza che da noi potrebbe essere concettualizzato
come una scrivania, potrebbe invece essere concettualizzato da un bambino come
un nascondiglio. Il trattamento di un dentista viene concettualizzato come un
fatto positivo per la salute, ma per un bambino potrebbe rappresentare invece un
minaccia alla sua integrità fisica. Se vediamo qualcuno venirci incontro,
immaginiamo questa persona in un certo modo. Questa idea può cambiare
drasticamente nel momento in cui riconosciamo in questa persona il nostro amico
Mark o il nostro nemico Fred. In quel momento tutti i nostri ricordi riguardanti
quella persona si fondono con le nostre percezioni sensoriali mediate in
un'esperienza concettualizzata di quella persona. Non stiamo quindi parlando di
una faccenda di poco conto, ma di un tipo di attività mentale che influenza
profondamente la nostra esperienza di vita. Siamo a conoscenza di quanto
profondamente questa attività mentale influenzi la nostra esperienza di vita e
quali siano i suoi effetti sulla salute? Affronterò queste domande nella parte
riguardante la meditazione.
Il mondo come lo conosciamo -la nostra realtà personale- cambia non solo da
persona a persona, ma cambia continuamente anche dentro di noi. Sebbene la
nostra esperienza della realtà sia relativa, (relativa a noi o a ciò che fa la
nostra mente), è allo stesso tempo reale per noi sia che siamo bambini o adulti,
sia che ne soffriamo o gioiamo. La relatività personale della realtà non rende
quindi meno reale la nostra esperienza di vita, anzi è piuttosto il contrario:
la nostra realtà personale è per noi tanto relativa quanto reale, anche se si
basa su visioni erronee.
Comunque, considerare reale il mondo come lo conosciamo è un atto di confusione
anche se noi lo viviamo in quel modo. Abbiamo quindi un paradosso psicologico
fondamentale, che deriva dal fatto che il "mondo come lo conosciamo" che
psicologicamente indica la realtà nella quale viviamo, non è necessariamente
uguale al "mondo come è". Quindi il paradosso è il fatto che viviamo nel mondo
per come lo conosciamo, ma il mondo come lo conosciamo non è necessariamente il
mondo in cui viviamo.
L'espressione "il mondo come è" indica in questo contesto la realtà come ci
appare quando la nostra visione è priva di confusione, cioé quando non abbiamo
la fissazione del mondo come lo conosciamo e non ci identifichiamo con esso.
Dobbiamo stare attenti quando diciamo "priva di". Tale espressione non si
riferisce all'assenza di confusione; si riferisce al fatto di non essere
limitati dalla confusione. In altre parole, il mondo "come è" ci appare quando
il mondo come lo conosciamo viene visto chiaramente come è; un mondo in parte
riconosciuto quale una nostra costruzione mentale. Vedere in modo chiaro
significa quindi vedere chiaramente la confusione. Se vediamo la confusione in
modo chiaro, siamo quindi confusi o chiari? Se vediamo la nostra esperienza
concettualizzata, il mondo come lo conosciamo, per quello che è, vediamo quindi
il mondo come lo conosciamo o vediamo il mondo come è? La risposta è
naturalmente che la distinzione non è più pertinente. Vediamo il mondo come lo
conosciamo per quello che è. Questo tipo di visione chiara è l'aspetto
conoscitivo di ciò che abbiamo definito "salute ultima".
Salute relativa
Nel mondo come lo conosciamo esiste anche "la salute come la conosciamo".
Proprio come abbiamo una esperienza concettualizzata della realtà, allo stesso
modo abbiamo la nostra esperienza concettualizzata della salute. Potremmo
definirla l'esperienza della salute relativa, poiché essa è relativa alla nostra
attività mentale di concepire il nostro campo di esperienza. Proprio come la
nostra realtà relativa è vissuta come reale, allo stesso modo la nostra salute
relativa è vissuta come salute reale. Ed è il caso di chiunque vive in una
realtà relativa, sia che si tratti di uno psicoterapista o di un cliente. Vi
faccio alcuni esempi concreti dell'effetto della nostra concezione di salute sul
senso di salute. Se pensiamo che l'esercizio fisico sia salutare, proveremo un
senso di salute più grande dopo esserci stancati fisicamente. Se pensiamo che
avere un rapporto sessuale almeno due volte la settimana sia segno di buona
sessualità, il nostro senso di benessere potrebbe anche diminuire se non viviamo
secondo le nostre idee. Potremmo credere di avere un problema e preoccuparci. Se
abbiamo determinate idee di ciò che costituisce la salute e la sanità mentale,
riterremo sani (noi stessi e) altre persone quando (il nostro e) il loro modo di
essere risponde alle nostre idee. La pubblicità è l'arte di rivestire di
concetti allettanti la nuda realtà del prodotto che si vuole vendere. Il fatto
che la pubblicità funziona ci dice qualcosa circa la natura della nostra mente.
Secondo le tradizioni contemplative, chiunque non abbia raggiunto la completa
libertà dal mondo come lo conosce, può provare solo salute relativa. Infatti,
c'è un elemento di confusione e ignoranza in questa esperienza. Ciò che sembra
salutare nel mondo come lo conosciamo potrebbe essere invece dannoso. Ad
esempio, se il fatto di fumare è concettualizzato come connesso all'essere
forti, attivi, giovani e disinvolti, allora il fatto di fumare potrebbe
suscitare in noi l'esperienza concettualizzata di salute. Diventa quindi molto
importante non affidarsi ciecamente a ciò che consideriamo salute e ciò che
viviamo come salute. La nostra esperienza concettualizzata di salute è un
aspetto del nostro modo di vivere la realtà della vita umana. La nostra
esperienza di salute relativa si svilupperà dalla saluta assoluta oppure si
allontanerà da essa a seconda che personalmente siamo in grado di vedere
attraverso la nostra esperienza concettualizzata e abbandonare la nostra
fissazione e identificazione con essa. Fino a quando continuiamo a credere nella
nostra esperienza concettualizzata della salute (o di qualsiasi altra cosa) come
reale, siamo imprigionati dalla nostra ignoranza della realtà e ne soffriamo.
Questa sofferenza consiste nel vivere delle esperienze che riteniamo salutari ma
che non lo sono. La buona salute come la conosciamo non è necessariamente la
buona salute come in effetti è. Quindi non solo il concetto di salute nel quale
crediamo, ma anche il piacere di ciò che consideriamo salute non è privo di
rischi. Può portare a un deterioramento della nostra salute e di quella altrui
oppure potrebbe portare a un modo di essere nel quale la visione profonda e
l'amore per la salute assoluta diventano più evidenti.
Dal punto di vista contemplativo, il sentiero sul quale consumiamo la nostra
esperienza concettualizzata della realtà ci fa anche perdere sempre più
l'interesse nel credere alla nostra esperienza concettualizzata della salute. A
quel punto comincia ad apparire la direzione da seguire per giungere alla salute
assoluta. Cominciamo a pensare alla possibilità che potremmo perfino essere
ammalati in modo sano, e che la salute assoluta non sia qualcosa di molto
lontano, ma che è invece parte del nostro essere, parte di chi siamo, anche se
essa è offuscata da chi pensiamo di essere. Ovviamente, uno sviluppo graduale
verso una visione assolutamente chiara è di solito inevitabile e necessario,
poiché un'energia emozionale potente e dirompente è spesso collegata alla
confusione che abbiamo per la realtà. Dovremo approfondire come noi in effetti
creiamo, manteniamo e crediamo nella nostra esperienza concettualizzata, il
nostro mondo come lo conosciamo. Come è possibile fare ciò, concretamente
parlando?
Confluenza del pensiero ed
esperienza (esterna
Come abbiamo detto, il mondo come lo conosciamo è in effetti il mondo che
crediamo esso sia. Questo mondo deriva quando concettualizziamo la nostra
esperienza. Ma che cosa intendiamo concretamente con "concettualizzare la nostra
esperienza"? Che cosa facciamo quando "concettualizziamo la nostra esperienza"?
Come e cosa facciamo quando creiamo mentalmente questo mondo? Lo creiamo e lo
manteniamo attraverso il flusso di pensieri che produciamo dal momento in cui ci
svegliamo fino al momento in cui andiamo a dormire. Durante quel periodo di
tempo l'attività mentale si fonde con l'attività percettiva o sensoriale dei
nostri cinque sensi. Questi sei tipi di attività si uniscono risultando
nell'esperienza personale della realtà o in ciò che abbiamo chiamato "esperienza
concettualizzata". Per questo motivo molte psicologie contemplative parlano di
sei e non cinque facoltà sensoriali, così come fa la nostra psicologia
convenzionale. Queste sei facoltà comprendono i cinque sensi (vista, udito,
odorato, gusto e tatto) che sono in relazione con l'esterno, e una sesta facoltà
che ha come oggetto fenomeni interni come il pensiero e altre attività mentali.
Nel nostro modo psicologico di pensare tendiamo a considerare il pensiero come
qualcosa che avviene al di fuori della nostra esperienza in qualche luogo
isolato chiamato "la nostra mente". Da quel luogo pensiamo alla nostra
esperienza. Di conseguenza crediamo di poter pensare alla nostra esperienza
senza influenzarla. L'approccio contemplativo con la sua teoria delle sei
facoltà va esattamente contro tale idea. Esso sottolinea il fatto che l'attività
mentale è tanto empirica quanto lo è l'attività degli altri sensi. Tornerò su
questo punto più avanti, in quanto ha molte conseguenze.
Rendiamo innanzitutto più concreto il concetto dell'attività mentale e del
pensiero dando ad esso una definizione operazionale. Definisco l'attività
mentale come i cambiamenti nel nostro campo di esperienza che possiamo ancora
notare quando manteniamo più o meno costante la nostra esperienza sensoriale
mediata del nostro ambiente esterno. Se manteniamo costante tale ambiente,
possiamo notare che c'è ancora qualcosa che "si muove"; potremmo chiamare ciò la
nostra "mente" o il nostro "flusso di pensieri", come fece William James. Quando
siamo svegli questo flusso di pensieri, che contiene immagini, ricordi,
emozioni, dialoghi interni ecc. è confluente con il flusso di esperienza
sensoriale mediata. I nostri pensieri avvengono con i cinque modi di esperienza
formando così una specie di "emulsione". Questa "emulsione" non è trasparente;
vale a dire che normalmente non consideriamo quale sia il contributo di ognuna
delle sei facoltà sull'esperienza risultante che ci capita di provare.
Normalmente non esercitiamo la nostra consapevolezza analitica su tale effetto.
Una metafora può chiarire che cosa voglio dire. Quando guardiamo un film
sappiamo (o per lo meno il produttore sa) quanto le nostre impressioni visive e
i suoni naturali che appartengono a ciò che vediamo possono essere influenzati
dal tipo di musica in sottofondo; una scena di una casa vecchia in lontananza in
una giornata di temporale può sembrare desolata oppure ospitale a seconda del
tipo di musica in sottofondo. Normalmente non siamo consapevoli di come tutte
queste esperienze si fondano nell'esperienza risultante. Se lo fossimo,
probabilmente penseremmo che il film è scadente. Immaginiamo che una voce di
sottofondo faccia parte del film. Ciò che essa dice può avere una relazione con
le immagini e la musica oppure no. Tuttavia, la narrazione si fonde con le altre
esperienze in ciò che viviamo come una specie di realtà, che cattura la nostra
mente. E' difficile dire quale fonte - le immagini, il suono, la musica, il
narratore - ci catturi nalla "realtà" del film. Il produttore potrebbe dircelo,
in quanto ha usato la sua consapevolezza analitica e abilità per ottenere questa
caratteristica di coinvolgimento del film, che in qualche modo ci fa vivere nel
film. In questa metafora il narratore e la musica rappresentano la nostra
attività mentale, il nostro flusso di pensieri. Le immagini e il suono
rappresentano il flusso esterno della nostra esperienza sensoriale mediata.
L'esperienza di coinvolgimento del film rappresenta la nostra esperienza
concettualizzata. Il produttore rappresenta le nostre sei facoltà che operano
tutte assieme. La metafora è leggermente fallace in questo caso, in quanto
dietro la nostra esperienza di vita non c'è un "produttore" che prima mette
assieme l'intera sequenza di esperienze e poi le rappresenta, come invece
succede nell'esperienza del film. Infatti, il flusso della nostra esperienza
concettualizzata semplicemente si sussegue in modo non preparato, per così dire;
il nostro commento interno (la narrazione) e le nostre emozioni (la musica) sono
improvvisate al momento. Chissà cosa succederà in seguito? Nessuno lo sa.
Le radici delle neurosi
Sta a questa attività mentale narratrice mantenere un qualche tipo di realtà
convincente o affidabile, che è il mondo come lo conosciamo. Questa attività
mentale accompagna costantemente la nostra esperienza da svegli e crea i nostri
sogni e, sebbene essa determini l'esperienza di sofferenza oppure di salute,
questa attività mentale è così abituale che solo raramente ne siamo consapevoli.
E' la fonte della nostra mancanza di realismo e del dolore che l'accompagna; non
essendo consapevoli della natura della nostra attività mentale continua, spesso
confondiamo per realtà l'insieme risultante di immagini ed emozioni e finiamo
quindi col vivere nel mondo come crediamo che sia. Vivere in quel mondo oscura
la nostra salute assoluta, sia fisica che mentale. Poiché consideriamo questo
mondo creato da noi stessi come reale, e poiché cerchiamo la felicità fuggendo
dal dolore, in quel mondo non possiamo affatto trovare la felicità. I nostri
sforzi portano al dolore e all'ansia, che stanno alla base delle neurosi.
Ovviamente, il nostro flusso di pensieri contiene narrazioni tristi e felici,
narrazioni piene di speranza oppure piene di paura, distruttive e creative,
belle e brutte, che si fondono con la nostra esperienza sensoriale mediata.
Possiamo facilmente immaginare le strategie terapeutiche che mirano a migliorare
il modo di concettualizzare l'esperienza cambiando le abitudini mentali del
pensiero distruttivo o doloroso in abitudini mentali più sane. Si tratta
ovviamente di un approccio valido. Tuttavia, dal punto di vista
psicologico-contemplativo sia i pensieri tristi che quelli felici sono parte
della realtà solipsistica creata dalla nostra mente. Possono portare alla salute
relativa ma non alla salute assoluta. Infatti, se non distruggiamo questa realtà
creata da noi stessi - cioé se confondiamo i nostri pensieri riguardanti la
realtà con la realtà vera e propria - continuiamo ad ingannare noi stessi e non
avremo estirpato le radici delle neurosi. Anche se veniamo curati, potremmo
avere una ricaduta quando il nostro "mondo" cambia nuovamente. Non si sarà
ottenuto alcun risultato reale o duraturo.
Vedremo che la pratica Buddista della meditazione mira precisamente a estirpare
le radici delle neurosi. La pratica della meditazione è intesa a liberarci dalla
fissazione e identificazione con il nostro flusso di pensieri. Questa libertà ci
porta ad un modo di essere sano, non in senso relativo, ma in senso assoluto;
essa non implica l'assenza di pensieri, ma l'assenza di fissazione e confusione,
una completa chiarezza mentale che non è influenzata dall'alternarsi di salute
relativa e malattia, ma che si pone di fronte al dolore della vita umana con
compassione assoluta. Questa apertura mentale è un modo di essere basato
sull'esperienza, che ho definito "salute assoluta". Per quanto riguarda la
sanità mentale, il maestro buddista di meditazione Chögyam Trunga ha introdotto
il termine "sanità di mente di base". Vorrei ora porre questa nozione di sanità
di mente di base nel contesto appropriato descrivendo a grandi linee ciò che la
psicologia contemplativa del Buddismo ha da dire circa la salute e la
meditazione. Dopodiché esamineremo come tale psicologia è in relazione con la
psicoterapia.
L'approccio Buddista
La visione centrale buddista della vita umana -espressa sia nei sutra (testi
attribuiti al Budda) che nei shastra (commenti successivi) e in modo più
esplicito nelle scuole filosofiche come Yogachara - si trova in diverse
tradizioni contemplative. E' la visione che abbiamo in qualche modo già
descritto sopra; sebbene ci sia una realtà, il modo in cui noi percepiamo ogni
aspetto di essa è una creazione della mente. L'esperienza è la nostra esperienza
e in questo senso gli esseri umani vivono in un mondo solipsistico. Questo modo
di vivere caratterizza l'esperienza degli esseri non illuminati. Il mondo creato
dalla mente che quindi ci appare è chiamato, nel Buddismo, samsara. L'esperienza
del mondo samsarico ha tante ombre e modi quanti la nostra mente sia in grado di
immaginare o percepire. Di conseguenza, si dice che il samsara è infinito,
poiché la nostra immaginazione è infinita.
I Budda, ovvero gli illuminati, hanno abbandonato questo mondo solipsistico
creato dalla mente. Non sono più incantati da esso, ma riconoscono la vera
natura del mondo. Quindi vedono le cose per quello che sono. Non essendo
ingannati nemmeno per un attimo dal samsara, vedono con assoluta precisione
tutti i suoi aspetti ingannevoli. Perciò si dice che sono onniscienti e
completamente privi di illusione. Ciò non implica che vedano un altro mondo, in
questo caso completamente "puro", che in qualche modo è separato dal samsara, ma
secondo le concezioni di tutte le tradizioni buddiste, e in particolare secondo
le tradizioni Mahayana, vedono lo stesso mondo che vedono gli esseri non
illuminati, il samsara, ma lo vedono come in effetti è. Ciò corrisponde al
vedere il nirvana. Il nirvana è il mondo come appare nella visione illuminata.
Vedere il samsara come esso è rivela quel mondo. Vedere il samsara come esso è
significa vivere il nirvana. Non vedere il samsara come in effetti è vuol dire
vivere il samsara. La realtà come appare agli illuminati e agli illusi è la
stessa realtà, ma vista secondo prospettive diverse.
Come vi ho già accennato, ci sono illimitati modi di costruire o concepire
mentalmente la nostra esperienza personale e considerarla reale. Dal punto di
vista assoluto dell'illuminazione non è molto importante quale tipo di samsara
costruiamo, quale tipo di mondo concepiamo mentalmente come realtà, poiché tutti
questi mondi sono fondamentalmente basati sull'illusione, che ci rende non
realistici e ci porta alla sofferenza, all'ansia e alle neurosi. Il samsara è un
luogo dove vivere è orrendo. Se non lo vediamo come è la nostra ciecità ci
vincola all'esperienza dolorosa di esso. Questa comporta il desiderio di
abbandonare il samsara, difendendoci oppure cercando di conquistarlo e
controllarlo. Questi tentativi equivalgono al combattere contro i mulini a
vento, lottare contro i fantasmi. Sono essenzialmente dannosi e
controproducenti, poiché sono basati sulla credenza erronea nella realtà del
samsara e in questo modo tali tentativi rafforzano il samsara stesso.
Rappresentano il terreno di coltura dell'insania mentale e delle neurosi.
Invece, se vediamo il samsara come è, allora non fa più scattare difesa e
aggressività, ma suscita compassione. La nostra chiarezza mentale si manifesta
come amore e interesse per le illimitate manifestazioni del samsara. Quindi, da
punto di vista relativo della compassione, è importante in quale tipo di
illusione ci troviamo. Infatti, alcuni aspetti del samsara sono più
controllabili di altri, vale a dire che è più facile penetrare e svelare alcuni
aspetti di altri tramite le discipline contemplative. In altre parole, gli
strati del samsara che ricoprono la nostra sanità di mente di base variano in
"permeabilità". Si può chiaramente vedere ciò quando consideriamo la nostra
reazione ambivalente al dolore.
Il dolore, il punto di partenza
delle nevrosi e della sanità di mente
Si dice che l'essenza del samsara sia l'ignoranza o l'inganno di se stessi e che
la sua manifestazione è il dolore o la sofferenza. Poiché ci sono due modi di
guardare al samsara - quello degli illuminati e quello degli illusi - ci sono
anche due modi di reagire al dolore del samsara.
Se durante la nostra esistenza ci sentiamo personalmente minacciati dal dolore
che vediamo e proviamo, reagiamo con aggressività, resistenza oppure fuga. In
poche parole reagiamo con delle strategie di autodifesa. Se non ci sentiamo
personalmente minacciati dal dolore che vediamo o proviamo, reagiamo con dei
tentativi di salvare, proteggere, curare, eccetera. In poche parole, reagiamo
alla sofferenza con azioni di compassione.
Che cosa ci fa esitare a salvare qualcuno che sta annegando? E' il conflitto fra
l'istinto si sopravvivenza e l'impulso di alleviare la sofferenza altrui. Quindi
la quantità di azioni di compassione che possiamo manifestare è in stretta
relazione con l'importanza che diamo alla nostra esistenza. Se pensiamo che il
mondo intero o il nostro spazio vitale sia necessario quale supporto al nostro
senso di esistenza e sicurezza personale, potremmo non essere in grado di
manifestare alcuna compassione. Ogni cambiamento del nostro mondo potrebbe
allora minacciare la nostra esistenza personale. L'interesse per noi stessi
susciterebbe sempre autodifesa.
Al contrario, se siamo liberi da ogni concetto di esistenza personale, allora la
nostra reazione al dolore prenderebbe sempre la forma di azioni di compassione.
Non ci sentiremmo minacciati. Nella visione Buddista l'azione di compassione è
una manifestazione della nostra umanità e benevolenza; è un'espressione di
sanità di mente di base.
Il rapporto inverso tra il nostro senso di esistenza e compassione di fronte al
dolore ci dà un indizio di come potremmo coltivare la nostra sanità di mente di
base e l'apertura mentale, la compassione e la visione profonda ad essa
appartenenti.
L'ego, la fonte del dolore
Uno dei concetti fondamentali del Buddismo è che credere alla nostra esistenza
personale è una beffa. Se consideriamo attentamente la nostra esistenza,
potremmo notare vedute, suoni, odori, gusti, sensazioni fisiche, pensieri con il
loro tono emozionale, ma non noteremmo un cosiddetto "io", qualcosa che ha e
contiene tutte queste esperienze. Naturalmente, siamo abituati ad accettare
intellettualmente l'esistenza di un osservatore di queste esperienze, ma ciò non
vuol dire che si tratti di un fatto empirico o realtà. Si tratta solo di
qualcosa che manteniamo nel nostro pensiero.
La visione Buddista dell'inesistenza di ego è chiamata anatman. La parola
sanscrita atman significa ego e anatman si riferisce all'assenza di ego. La
realizzazione dell'assenza di ego, che consiste nel vedere la verità di
quest'ultima nell'esperienza concreta di vita, si manifesta come compassione
assoluta. E' chiaro che l'illuminazione dei Budda comprende l'essere libero
dall'illusione di credere alla realtà dell'ego e quindi essere liberi di
manifestare la compassione in modo incondizionato e assoluto. Al contrario, le
radici della confusione negli esseri umani ordinari è precisamente il credere
nell'ego. E' questo credo che crea e rafforza il samsara con tutta la sua
aggressività e dolore. Il samsara è la realtà vista attraverso il filtro
dell'ego.
Il termine "ego" è un termine molto vago nella nostra psicologia accademica.
Lasciate quindi che vi chiarisca ulteriormente cosa significa nel contesto della
psicologia contemplativa del Buddismo. Fondamentalmente, "ego" si riferisce
all'idea di un osservatore dell'esperienza. Psicologicamente si riferisce
all'idea che io sono qualcuno che ha certe caratteristiche più o meno stabili.
Queste caratteristiche in parte si estendono al mio ambiente; ci sono aspetti
dell'ambiente che sono come estensioni di me e che io chiamo "mie" e a volte
perfino "io/me". E' il mio territorio psicologico. La supposizione della verità
dell'assenza di ego è che possiamo essere senza cercare di essere qualcuno.
Questo "qualcuno" che pensiamo di essere è ciò che chiamiamo ego, ed è una
costruzione mentale, una fantasia che conduce alle neurosi e al dolore.
La visione dell'assenza di ego porta ovviamente ad un approccio estremamente
radicale alla salute e al suo sviluppo. L'idea che il credere in un sé è una
beffa va contro ciò che sembra del tutto lampante nella nostra esperienza
concettualizzata, nel nostro mondo come lo conosciamo e nella psicologia
convenzionale. Questa supposizione non trova supporto nella nostra esperienza
individualistica (spesso un eufemismo per "egoistica").
L'idea che proiettiamo sull'ambiente una gran varietà di caratteristiche create
dalla mente e che distorciamo la nostra percezione della realtà in quel modo è
naturalmente familiare alla psicologia accademica convenzionale. Ma l'idea che
questa proiezione possa estendersi così tanto che perfino "io" e "mio" e
"l'esterno" possono essere presentati come proiezioni sulla nostra esperienza va
oltre la nostra psicologia convenzionale. Quest'idea è la base della psicologia
contemplativa del Buddismo e la base del suo approccio alla sanità di mente.
La psicologia occidentale ha sviluppato il concetto di un'immagine del sé; esso
fornisce un altro lemma per la comprensione dei concetti Buddisti dell'ego e
della sua assenza. L'immagine di noi stessi è un concezione di noi stessi che
tendiamo a tenere a mente. La nostra immagine dovrebbe essere un'immagine di
qualcosa: Me stesso. Ma lo è veramente? C'è veramente qualcosa di cui questa
immagine è l'immagine? Potrebbe essere che la nostra immagine siamo noi o
piuttosto questa immagine è tutto quello che abbiamo. Abbiamo bisogno di
un'immagine per poter essere? Non potremmo semplicemente essere? Se qualcuno
minaccia la nostra immagine, la nostra idea di chi siamo o che cosa pensiamo di
essere, noi sembriamo sentirci minacciati e reagiremo con l'autodifesa, lottando
oppure fuggendo.
In questo modo manteniamo l'illusione e peggioriamo la nostra vita nel samsara.
Non vi sembra forse salutare non doversi preoccupare di quel "qualcuno" che
crediamo di essere: noi stessi?
Secondo la visione Buddista la nostra realtà convenzionale non è solo un mondo
solipsistico e creato dalla mente, ma anche un mondo egocentrico. Sorprende
allora il fatto che esso è la fonte della confusione e dell'egoismo e non la
fonte della sanità di mente di base?
Vorrei ora fare un'osservazione: l'egoismo e l'aggressività non sono visti come
l'opposto dell'altruismo e della compassione. Da una parte l'energia
dell'egoismo è vista come una forma di compassione; è compassione fraintesa. E'
compassione distorta. Ogni qualvolta il nostro senso incondizionato di dedizione
e compassione diventa condizionato dal nostro credere nell'ego, esso prende la
forma di interesse per sé e autodifesa. A quel punto diventa l'energia della
neurosi. D'altra parte, la compassione incondizionata non è necessariamente
pacifica o amichevole nelle sue manifestazioni. Potrebbe anche assumere una
forma altrettanto aggressiva. Potremmo colpire qualcuno per vera compassione.
Quando la compassione è influenzata dall'ego, la sua energia diventa l'energia
della neurosi e della malattia. Vediamo come questa energia si manifesta quindi
secondo la teoria Buddista della neurosi.
Una teoria Buddista delle
neurosi
Nella psicologia contemplativa Buddista c'è una teoria della neurosi che
descrive gli stati neurotici della mente in termini di sei stili o regni
chiamati lokas. Loka è il termine sanscrita per luogo. Questi lokas sono
ambienti psicologici o realtà personali in cui crediamo di essere costretti a
vivere. In questo senso essi sono anche descritti come "stili di
imprigionamento" (Trungpa, 1976). I sei regni costituiscono una descrizione più
dettagliata del samsara. Descrivono infatti sei modi di essere nel mondo, sei
modi di concepire la realtà basati sull'idea erronea che l'esperienza
concettualizzata di "me" e "ciò che è attorno a me" sia reale. Ognuno dei sei
"stili" di neurosi esprime uno "stile" particolare di "me" in rapporto
all'"esterno". Passo quindi a descrivere brevemente ognuno di questi sei
"stili"; prima vorrei però fare un'osservazione più generale su "me" e
"l'esterno" e le loro relazioni. Sebbene non identifichiamo mai noi stessi (il
nostro ego) con il nostro corpo, tendiamo comunque a concepire l'ego come una
specie di entità solida, come il nostro corpo, situato da qualche parte. Di
conseguenza, tendiamo a considerare la sua relazione con l'ambiente simile, in
una certa misura, alla relazione fra entità o corpi. I corpi possono scontrarsi
e danneggiarsi a vicenda. Possono attirarsi e aiutarsi a vicenda oppure possono
essere troppo distanti l'uno dall'altro per avere alcuna relazione. In termini
psicologici "me" tende a volte a considerare "l'esterno" come qualcosa che deve
essere portato nel proprio territorio e viceversa. Altre volte può considerare
"l'esterno" come qualcosa che deve essere tenuto al di fuori del proprio
territorio, lottando contro di esso o fuggendo da esso. Oppure l'ego può
ignorare "l'esterno" quando non è né desiderabile ma nemmeno una minaccia. Nella
psicologia Buddista questi tre atteggiamenti dell'ego sono chiamati i tre veleni
(in sanscrito: kleshas): la passione, l'aggressività e l'ignoranza. Avvelenano
la nostra esperienza della realtà e ci portano a soffrire di neurosi.
Queste tre emozioni sono le emozioni di base dell'ego e determinano la sua
psicologia. Sarebbe interessante osservare la relazione tra la psicologia dei
tre veleni della passione, aggressività e ignoranza con gli approcci
psicoanalitici di Freud, Adler e Jung, ma per motivi di spazio ciò non è
possibile.
I sei regni sono un'ulteriore espansione di questi tre veleni. Vi descrivo
quindi brevemente i regni secondo la loro emozione predominante e la distorsione
della realtà a cui porta tale emozione.
Se la nostra esperienza della vita è pervasa dalla sensazione di un ambiente
aggressivo e opprimente contro cui dobbiamo lottare, si dice che viviamo nel
Regno dell'Inferno. Come tutti gli altri nomi dei regni, "inferno" è usato in
senso metaforico. Non si riferisce ad un inferno da qualche parte là fuori, ma
allo stesso tempo viene inteso in senso molto letterale, perché vivere in questo
regno è un vero inferno. L'emozione predominante è l'aggressività, e la
distorsione della realtà che ne deriva è l'esperienza concettualizzata di un
mondo totalmente ostile.
Se la nostra esperienza della vita è pervasa dall'idea che la nostra
aggressività e l'esercizio del potere sugli altri può soppraffare e conquistare
chiunque consideriamo superiori a noi e in questo modo ottenere ciò che
vogliamo, si dice che viviamo nel Regno degli Dei Gelosi. Questo regno è
governato dalla rivalità, ed è manifestazione di potere e ambizione. L'emozione
predominante è la gelosia e questo mondo è distorto in un campo di battaglia per
i potenti nei quali ci riconosciamo.
Se la nostra esperienza della vita è pervasa dalla sensazione che non c'è alcun
modo per soddisfare le nostre passioni personali anche se sprechiamo ricchezze
infinite, allora viviamo nel Regno del Fantasma Bramoso. Ciò che sembra
soddisfare gli altri non soddisfa noi stessi. Ci sentiamo fondamentalmente
poveri. L'emozione predominante è l'avidità e il mondo è distorto in un luogo
che è ricco ma fondamentalmente ingeneroso o insoddisfacente per noi.
Se il nostro atteggiamento di base nei confronti della vita è che seguendo le
proprie passioni possiamo ottenere qualsiasi cosa desideriamo, siamo nel Regno
Umano. L'emozione predominante è la passione. La percezione del mondo è distorta
in un campo apparentemente infinto di possibilità e scelte di piacere e
divertimento. La possibilità di un un "paese della cuccagna" fisico, sociale e
spirituale è il suo sogno segreto.
Se crediamo che il modo migliore o più sicuro di affrontare la vita consista nel
notare il meno possibile, semplicemente cavandosela alla meno peggio come un
maiale che vede solo ciò che gli sta davanti, siamo nel Regno Animale.
L'ignoranza prende la forma della stupidità, che è l'emozione predominante. La
nostra percezione della realtà è distorta in modo da farci vivere in un mondo
noioso e poco interessante.
Se la nostra vita è pervasa dalla sensazione che il nostro ambiente o spazio
vitale è in effetti un "paese della cuccagna" o paradiso, fatto per servirci ed
elevarci ad uno stato di oblio, siamo nel Regno di Dio. Qui ci dimentichiamo di
"quelle povere persone laggiù" che soffrono e non sanno cosa vuol dire essere
"in vetta al mondo". Non capiamo di che cosa e perchè le persone soffrono. Non
le vediamo nemmeno. L'emozione predominante in cui si trasforma l'ignoranza è
l'orgoglio. La distorsione della realtà cambia il mondo in un luogo beato e
perfetto.
Questi sei "stili" della relazione tra l'ego e il suo ambiente sono sei forme di
neurosi e dolore creati dalla mente malgrado i suoi momenti di felicità
illusoria in alcuni dei regni. In termini più concreti, sono creati producendo
un flusso costante di pensieri nei quali "io" e "il mio ambiente" sono gli
attori principali e nei quali le relazioni tra i due è il tema principale.
Ovviamente, ci sarebbe molto di più da dire riguardo ai regni ma lo spazio non
mi permette di dilungarmi troppo (si veda Trunga, 1973, Gampopa, 1971).
Comunque, mi sembra opportuno fare alcune osservazioni circa la relazione fra
questi sei stati mentali neurotici. La prima è che le persone tendono a
sviluppare abitudini mentali di attraversare oppure restare in determinati
regni. Non necessariamente ci troviamo sempre in un regno; il tipo di esperienza
della vita cambia da regno a regno. Potremmo ritrovarci a passare dalla
mentalità di povertà del Regno del Fantasma Bramoso all'orgoglio dimentico degli
Dei. Questi cambiamenti possono avvenire velocemente oppure lentamente; possono
anche avvenire ad un livello più superficiale che è in relazione con la nostra
esperienza della vita e ad un livello più profondo di come consideriamo la vita.
In secondo luogo, potremmo dire che questi sei "stili" neurotici sono un tipo di
comportamento adattabile. Sono strategie per mantenere e rafforzare l'ego;
strategie per combattere ciò che l'ego (noi) odia, per conquistare ciò che piace
all'ego e per ignorare ciò che sembra irrilevante all'ego. Dovremmo tenere a
mente che nella visione Buddista il termine "ego" si riferisce a qualcosa che
esiste solo come illusione o insinuazione. Ha lo stesso tipo di esistenza di
Babbo Natale o dei folletti. Finché crediamo in essi, essi governano la nostra
vita. In modo analogo, l'illusione dell'ego, come ogni altra illusione, può
governare e strutturare la nostra esperienza della realtà dal punto di vista
emozionale e intellettuale, precisamente perché la nostra realtà convenzionale è
creata dalla mente.
Infine, si dice che ci sia una particolare relazione fra ognuno di questi sei
regni e la nostra sanità di mente di base: la possibilità di distruggere i mondi
dell'ego creati dalla mente dipende dalla mancanza di intensità del proprio
coinvolgimento nel regno in cui ci si trova. Si dice che l'intensità del dolore
nei Regni Inferiori (il Regno dell'Inferno, quello del Fantasma Bramoso e quello
Animale) è troppo grande per poterci ripensare, per così dire. Sebbene anche il
desiderio di uscirne sia grande, esso non supera l'intensità dell'aggressività,
avidità e stupidità di questi regni. Nei Regni Superiori (il Regno Umano, quello
degli Dei Gelosi e quello di Dio) l'intensità del dolore diminuisce
gradualmente, così come l'intensità del desiserio di uscirne. Solo nel Regno
Umano l'intensità del desiderio a volte supera l'intensità del dolore. Il motivo
di questo fatto è che l'abilità di seguire la propria passione, che è l'emozione
predominante del regno umano richiede una certa capacità di discernimento, una
certa intelligenza che è in grado di dirci se stiamo procedendo nella direzione
giusta oppure no. L'intelligenza ci permette di vedere "come le cose sono
associate", come la causa e l'effetto sono connessi. Questo discernimento ci
permette di avere una visione più chiara e realistica della nostra esistenza.
Potremmo dire che la disciplina della meditazione Buddista afferra questa
consapevolezza analitica e la sviluppa, non per dare all'ego uno strumento
migliore ma per far sì che tale consapevolezza distrugga la mente sasmarica e
l'illusione dell'ego e i suoi regni, in modo da svelare la nostra sanità di
mente di base.
Dobbiamo ora considerare un po' più attentamente la pratica della meditazione in
modo che essa sviluppi la nostra sanità di mente di base. Dopodiché tratterò in
modo più preciso la relazione tra meditazione e terapia.
Il background psicologico della meditazione Buddista
Le tradizioni contemplative sottolineano che gli esseri umani non possono
accorgersi ed esplorare solo l'attività del loro ambiente esterno, ma possono
notare anche l'attività interna della loro mente. I pensieri o l'attività
mentale non sono considerati qualcosa di separato dall'esperienza, ma vengono
vissuti. Non solo siamo in grado di pensare alla nostra esperienza, ma siamo
anche in grado di vivere i nostri pensieri. C'è quindi una duplice relazione tra
pensiero ed esperienza.
Nella nostra psicologia convenzionale tendiamo a considerare pensieri ed
esperienza come due concetti del tutto distinti. Tendiamo a supporre che i
pensieri riguardano l'esperienza, ma ne sono separati. Essi hanno luogo da
qualche parte lontano dall'esperienza, in un angolo nascosto: la mente
dell'osservatore. Pensare all'esperienza è ovviamente una strategia valida per
acquisirne la sua conoscenza. Questa strategia, che potremmo chiamare "strategia
concettuale" (De Wit, 1987b) forma le basi della nostra tradizione scientifica.
Quest'ultima presta pochissima attenzione all'altro aspetto della relazione
ambivalente tra pensiero ed esperienza. Comunque, il fatto che possiamo vivere i
nostri pensieri suggerisce la possibilità di altre strategie per l'acquisizione
della conoscenza, che definisco "strategie della consapevolezza" (De Wit,
1987b). Queste sono basate sul perfezionamento della nostra consapevolezza
analitica di ciò che vive la nostra mente. Sono usate essenzialmente nelle
tradizioni contemplative.
L'interesse poco equilibrato per le strategie contemplative ha conseguenze di
vasta portata nella nostra cultura. Crea e mantiene un clima scientifico e
sociale che non è aperto al più essenziale e molto più psicologico approccio
alla salute -l'approccio della sanità di mente di base- che le tradizioni
contemplative offrono in una gran varietà di discipline mentali.
LA PRATICA CONTEMPLATIVA DELLA MEDITAZIONE BUDDISTA
Nel caso del Buddismo, la disciplina della meditazione implica l'esercizio della
nostra attenzione e consapevolezza analitica con l'aiuto della tecnica della
meditazione, che è estremamente semplice. Generalmente bisogna stare seduti
nella cosiddetta "posizione di meditazione" in un ambiente tranquillo,
mantenendo distante il mondo esterno. Stando seduti dobbiamo mantenere
l'attenzione sul movimento del respiro. Naturalmente la meditazione implica una
serie di perfezionamenti che assumono importanza quando si inizia a praticare
seriamente questa disciplina. Questi perfezionamenti possono essere trasmessi in
sedute private con un istruttore qualificato di meditazione della tradizione
Buddista.
Che cosa pratichiamo in effetti quando applichiamo questa tecnica? Con l'aiuto
di questa tecnica pratichiamo l'atto di abbandonare l'abitudine mentale di
essere immersi nel flusso di pensieri per acquisire l'abitudine (mentale) di
vedere i nostri pensieri. Vedere il movimento dei nostri pensieri implica una
certa distanza o distacco da essi, la quale manca nel momento in cui siamo
immersi nei nostri pensieri. Il salto mentale dall'essere immersi nei propri
pensieri al vedere il proprio pensiero non è un atto intellettuale di
distanziarsi. Non è l'atto di pensare "questo è solo un pensiero, non devo
perdermi in esso". E' un atto di consapevolezza, come svegliarsi; quando ciò
succede possiamo nuovamente rivolgere la nostra attenzione al respiro. Questo
risvegliarsi continuo dal nostro essere immersi nel flusso di pensieri è ciò che
impariamo con l'aiuto di questa tecnica. A causa della nostra abitudine di
identificarci e vivere nei contenuti dei nostri pensieri, tendiamo a smarrirci
in essi. Questo succede anche durante la pratica della meditazione; la nostra
attenzione passa dal respiro al contenuto dei nostri pensieri. Cominciamo a
sognare a occhi aperti fino a quando ci risvegliamo e rivolgiamo la nostra
attenzione di nuovo al respiro.
Ci sono due aspetti della disciplina della meditazione Buddista, che
tecnicamente sono chiamati shamatha e vipashyana. Shamatha, che letteralmente
significa "pace", si riferisce all'aspetto di sviluppare una stabilità mentale
esercitando la propria attenzione al respiro. Vipashyana, spesso tradotto
"meditazione dell'intuizione" si riferisce all'aspetto di sviluppare chiarezza e
capacità di penetrare nella natura della propria mente e del flusso continuo di
esperienza concettualizzata. Con shamatha stimoliamo la nostra mente. Ciò è
necessario in quanto abbiamo bisogno di una buona capacità di osservazione per
poter vedere chiaramente e obbiettivamente il movimento della nostra mente in
vipashyana. Se veniamo completamente trascinati via dal nostro flusso di
pensieri non siamo in grado di vivere le caratteristiche del flusso stesso. Una
metafora può chiarire questo concetto. La nostra consapevolezza non allenata è
come un bastone che galleggia lungo la corrente del nostro pensiero. Non c'è
attrito tra l'acqua e il bastone; ciò coincide all'essere immersi nei propri
pensieri. Non siamo nemmeno consapevoli del potere coinvolgente e della forza
della corrente. Se raccogliamo il bastone e lo piantiamo sul fondo del torrente
e lo teniamo lì, abbiamo raggiunto una certa stabilità. Fissare il bastone sul
fondo coincide allo stare seduti e prestare attenzione al respiro; è l'aspetto
shamatha della nostra disciplina. Poiché il bastone non sta galleggiando,
possiamo ora notare la forza e la natura del torrente, il modo in cui l'acqua
spinge e spruzza contro il bastone e come la sua forza e altre caratteristiche
variano nel tempo. Queste osservazioni sono l'aspetto vipashyana della
disciplina. Diventiamo consapevoli e otteniamo una visione profonda crescente
della natura del nostro flusso di pensieri e la sua confluenza in ciò che
abbiamo definito la nostra esperienza concettualizzata. L'uso di questa metafora
chiarisce che shamatha - anche se questo aspetto viene sottolineato quando
cominciamo a praticare la meditazione - e vipashyana appartengono uno all'altro
e restano uniti negli stadi successivi dello sviluppo meditativo. La pratica del
shamatha e vipashyana è la disciplina principale della meditazione Buddista.
Generalmente è affiancata da altre discipline contemplative che vengono
praticate dopo la seduta di meditazione. Tali discipline, chiamate shila
contengono ad esempio le istruzioni di come sviluppare un modo di comportarsi
decoroso e compassionevole. Svolgere azioni compassionevoli ci aiuta
ulteriormente a penetrare e abbandonare l'egocentrismo.
SVILUPPO MEDITATIVO
Avendo parlato di come e che cosa pratichiamo, potremmo chiederci a che cosa
porta tale pratica. Considerando shamatha e vipashyana da un punto di vista
dello sviluppo, si dice che shamatha, a causa del suo effetto "stabilizzante"
tende a diminuire la nostra tensione mentale (e fisica), o stress. Attraverso
shamatha cominciamo a poterci sedere e rilassare con la mente senza preoccuparci
di quanto attivi o "assonnati", esultanti o deprimenti possano essere i nostri
pensieri con tutto il loro tono emozionale e intensità. Cominciamo a perdere la
paura di essere sopraffatti da una cascata di pensieri o, al contrario, di non
aver alcun pensiero. Ciò porta una certa forza mentale, che è un aspetto di ciò
che viene definito samadhi. Questa forza ci permette di smettere di aggiungere
legna al fuoco; vale a dire che siamo in grado di smettere di alimentare il
flusso di pensieri con ulteriori pensieri di ciò che speriamo di fare o di ciò
che temiamo. In questo modo diventa più facile controllare il flusso di
pensieri; per questo motivo possiamo esaminarlo più da vicino durante la
meditazione: questo è l'aspetto vipashyana della pratica. I risultati di tale
analisi consistono nella chiarificazione graduale dell'inganno e della
confusione, e culmina nel vedere chiaramente l'esistenza illusoria dell'ego e la
sua controparte samsara. Inoltre, gli atteggiamenti psicologici e le emozioni
che si basano su questa illusione perdono la loro energia. Il processo di
chiarificazione tramite la meditazione e le altre discipline contemplative è
graduale; comprende vari stadi che a volte possono essere dolorosi e stressanti.
Questi stadi prevedono la soluzione delle enormi complessità mentali che che si
sono sviluppate in un periodo di tempo molto lungo quale risultato della nostra
credenza nell'illusione dell'ego. La nostra mente intreccia costantemente e
abitualmente un tessuto molto resistente con le fibre di pensieri egocentrici
più o meno intensi. Lo stare seduti in un ambiente tranquillo mette in luce il
movimento della nostra mente. Ciò rende più semplice vedere come la sua energia
intreccia il tessuto illusorio delle nostre formazioni mentali. Queste ultime o
samskaras sono il tessuto col quale rivestiamo le nostre esperienze esterne.
Creiamo e manteniamo così la nostra esperienza concettualizzata con tutta la
complessità e confusione dell'ego e del samsara.
A poco a poco il processo di meditazione distrugge tutto ciò e alla fine conduce
ad un modo fondamentalmente diverso di essere e ad una psicologia diversa.
Questo modo di essere è stato chiamato la realizzazione della natura-budda o
illuminazione. In questo modo di essere la nostra ignoranza diventa chiarezza
totale, la passione diventa compassione e visione profonda e la nostra
aggressività diventa gioia del benessere assoluto. Questo cambiamento va ben
oltre il raggiungimento di una comprensione intellettuale della neurosi e della
illuminazione. La psicologia della neurosi viene abbandonata e sostituita dalla
psicologia della sanità di mente di base.
La psicologia della sanità di mente di base riflette la mente, le
caratteristiche e le azioni degli illuminati. E' stata accennata in vari testi
(ad es. Asanga, 1979; Thrangu, 1988). Il concetto di sanità di mente di base di
questa psicologia va oltre il concetto di salute come uno stato di benessere
mentale, sociale e fisico. Secondo questa psicologia si può soffrire o stare
male in un modo fondamentalmente sano. Si può invecchiare e morire in buona
salute. Proprio come ha indicato Vergote quando ha cercato di approfondire la
psicologia di Gesù, la mente e le azioni di chi ha scoperto e capito la natura
della mente non possono essere catturate e spiegate dalle nostre psicologie
convenzionali: esse generalmente suppongono che la passione\avidità,
l'aggressività\odio e l'ignoranza\confusione appartengono indissolubilmente alla
natura umana. Esse non considerano queste emozioni come il risultato dell'
illusione dell'ego. A causa di questa supposizione la salute e la sanità di
mente vengono viste come il risultato di uno stile di vita nel quale la passione
può essere soddisfatta entro ceri limiti e nel quale l'aggressività può essere
espressa in modo innocuo e l'ignoranza e la confusione possono essere affrontate
se sembrano rappresentare degli ostacoli.
L'idea di un modo completamente diverso di essere e di una psicologia diversa
può sembrare bizzarra a molti. Tuttavia, secondo le tradizioni contemplative è
il risultato immediato dei cambiamenti psicologici che costituiscono gli stadi
sul sentiero contemplativo. Non c'è da preoccuparsi più di tanto, comunque. E'
più importante esplorare e lavorare con la nostra psicologia attuale se vogliamo
procedere sul sentiero contemplativo. Prima dobbiamo fissare il bastone sul
fondo del "torrente" dei nostri pensieri ed esplorarlo.
Dopo questa breve introduzione alla pratica Buddista della meditazione, vediamo
la relazione tra meditazione e terapia.
La relazione tra meditazione e
psicoterapia
A causa delle possibilità che offre il Regno Umano, diciamo che questo modo di
essere è il più sano di tutti gli altri sei regni. E' l'unico che offre una base
per lo sviluppo della sanità di mente di base. Parlando di terapia, questo
ovviamente significa che potremmo e dovremmo concepire una terapia che miri a
portare le persone allo stato d'animo del Regno Umano. Questa terapia non avrà
quale obiettivo lo sviluppo della sanità di mente di base, ma lo sviluppo di uno
stato di salute o sanità relativa, cioé la sanità relativa di base del regno
umano. Se una persona viene portata a questo stato di sanità relativa, allora il
viaggio verso la realizzazione della propria sanità di mente di base diventa
possibile. La sanità relativa è ancora ostacolata dalle neurosi, mentre la
sanità di base non lo è. A me sembra che le discipline delle terapie
convenzionali generalmente mirino allo sviluppo della sanità relativa. Lo
sviluppo della sanità di base sembra invece essere l'obbiettivo della maggior
parte delle discipline contemplative, e in particolare della meditazione
Buddista.
Se la meditazione e la terapia sono in relazione nel modo sopra indicato, è
importante che il terapista da una parte e i maestri contemplativi dall'altra
siano consapevoli delle differenze degli obbiettivi e metodi tra le terapia e la
meditazione. La terapia non è una forma di meditazione, e la meditazione non è
una forma di terapia. Ci sono risultati che la terapia può ottenere, e che la
meditazione non può e viceversa. Infatti, la meditazione mira al risveglio della
mente verso la sanità di base, mentre la terapia mira alla mente della salute
relativa. "Potremmo dire quindi che la meditazione non è terapia. Se nel viaggio
spirituale, o in qualsiasi tipo di disciplina spirituale, è implicata una
nozione di terapia, allora diventa condizionale". (Trungpa, 1988:3).
Ciò significa che il desiderio di chi medita (cioé che la disciplina possa
risolvere tutti i problemi psicologici) è infondato e naive. Solo se ci poniamo
completamente nella sanità di mente di base del regno umano questo desiderio
potrebbe avere un fondamento. Il percorso verso la sanità di mente di base
presuppone lo sviluppo della sanità di mente relativa, per avere un fondamento
abbastanza solido nel regno umano. D'altra parte, l'aspettativa che la
psicoterapia possa condurci al di fuori del samsara e portarci alla
realizzazione della sanità ultima è altrettanto naive e erronea.
Sebbene non si debba credere che l'unico modo per sviluppare la nostra sanità
relativa sia la terapia convenzionale, un terapista può aiutarci a creare un
modo di vivere e un ambiente psicologicamente sano quando non siamo in grado di
raggiungere tale obbiettivo da soli, cosa in effetti molto difficile nella
nostra complessa cultura occidentale. Il maestro tibetano di meditazione Tai
Situ (1989) osserva che è stato relativamente semplice creare uno stile di vita
psicologicamente armonioso nella società rigidamente unitaria e compatta che
esisteva in Tibet. Genitori, zii, zie e altri membri della famiglia erano
disponibili nell'offrire aiuto psicologico e umano. Offrivano l'aiuto che le
famiglie delle società moderne non possono più offrire perché non hanno
esperienza con l'enorme varietà di stili di vita e modi di vedere che si sono
sviluppati. Questo spiega perché vediamo secondo Tai Situ il bisogno di un aiuto
professionale dei "terapisti" nelle società pluralistiche.
La differenza di obbiettivo e metodo fra la disciplina terapeutica e quella
contemplativa non preclude naturalmente che la motivazione dei terapisti e dei
loro clienti da una parte e la motivazione dei maestri di meditazione e dei loro
studenti dall'altra potrebbe anche essere la stessa. Si dice nella tradizione
Buddista che tutti gli esseri senzienti vogliono essere felici. Se capiamo la
nozione di felicità nel suo senso più profondo del vero benessere o sanità di
mente di base, allora sia i terapeuti che i maestri di meditazione (e le persone
che lavorano con essi) potrebbero anche avere la stessa motivazione, anche se
allo stesso tempo possono essere consapevoli dei limiti del loro mestiere.
E' chiaro che se aiutiamo qualcuno a superare la sua paura di volare o la sua
paura dei luoghi affollati, contribuiamo al suo benessere. Ma potremmo chiederci
se questo contributo esprime il traguardo ultimo della psicoterapia. Alcuni
psicoterapisti sostengono di sì, e altri non sono daccordo, a seconda di che
cosa considerano come obbittivo della (loro) terapia e che cosa pensano delle
possibilità psicologiche dell'uomo. Non esprime sicuramente il traguardo ultimo
della meditazione come inteso dalle tradizioni spirituali. I terapisti
considerano prima di tutto i problemi immediati che i clienti presentano loro.
Ciò potrebbe naturalmente portare anche al trattamento di problemi sottostanti.
Questa discussione mette nuovamente in luce un noto punto comune alla conoscenza
contemplativa e a quella terapeutica; è assolutamente necessario sia per la
guida spirituale che per il terapista considerare attentamente la loro visione
della vita e la loro immagine dell'uomo nell'eseguire il loro particolare
mestiere. Se il terapista ha una visione superficiale della vita umana o di cosa
può essere e portare la vita umana, allora naturalmente i risultati della
terapia potrebbero essere limitati. Potrebbe essere che il terapista raggiunga
col cliente ciò che sperava di ottenere, e da quel punto di vista la terapia è
positiva. Ma dal punto di vista contemplativo la stessa terapia potrebbe essere
considerata una perdita di tempo, poiché se essa è basata su una visione della
vita offuscata da concetti o idee che non hanno alcuna relazione con la visione
di sanità di mente di base, allora potrebbe facilmente tenerci legati,
nonostante risultati temporanei, al mondo della neurosi e del dolore. Infatti, i
risultati temporanei fanno capire che c'è un certo conforto da poter raggiungere
nei sei regni della sofferenza. Fino a quando abbiamo questa aspettativa,
continueremo a vagare per i regni.
La moralità nella disciplina terapeutica e in quella contemplativa
Benché i terapisti possano indirizzare la loro terapia verso la soluzione dei
livelli più profondi della sofferenza psicologica, generalmente essi non
sostengono di poter salvare la nostra anima. Questa modestia o riluttanza da
parte dei terapisti non è connessa solo al fatto che oggigiorno la maggior parte
di essi non credono nelle possibilità di uno sviluppo spirituale che le
tradizioni contemplative considerano invece reali, ma anche al fatto che non
vogliono essere moralisti. Dopo aver aiutato a ristabilire uno stato di salute
relativa, vogliono che sia l'individuo a determinare il corso della propria
vita. "Lasciate decidere a loro che cosa è buono o cattivo e ciò che può o non
può soddisfare loro". Attraverso questa assenza morale la psicoterapia si separa
dalle tradizioni spirituali che sottolineano il valore spirituale della condotta
morale. Anche la pratica della meditazione, che di per sé non ha alcun "obbligo"
morale è spesso presentata all'interno di un contesto morale.
Cosa interessante, la tradizione contemplatva Buddista ha un'altra forma di
rinuncia della morale. Essa è espressa nella visione che nel samsara o nel modo
di vita profano o materialistico non c'è una condizione prediletta.
Naturalmente, una condizione può essere meno dolorosa di un'altra e quindi
alcune condizioni sembrano più felici rispetto ad altre, ma nessuna offre
felicità assoluta o sanità di mente di base, in quanto tutte mancano di una
comprensione ultima o profonda che potrebbe estirpare le radici della sofferenza
e della neurosi. Essenzialmente non c'è bisogno di sviluppare nessuna di queste
condizioni. Comunque, praticamente parlando, ci sono condizioni che sono più
facili da analizzare e dalle quali è più facile riavvicinarsi alla
consapevolezza e la compassione analitica della nostra sanità di mente di base.
Queste condizioni sono preferite non per il loro valore morale ma per il valore
pratico che hanno quali stadi sulla via contemplativa.
La meditazione e la psicoterapia
possono avvalersi dell'appoggio reciproco?
La meditazione Buddista e la terapia sono discipline diverse con scopi e metodi
diversi, ma la stessa motivazione - quella di attenuare la sofferenza - può
essere presente nella mente dei suoi praticanti; dobbiamo chiederci se queste
due discipline possono in qualche modo avvalersi dell'appoggio reciproco.
Poniamo questa domanda in un contesto Buddista. Abbiamo definito le terapie come
mezzi per portare le persone fuori dallo stato mentale dei cinque Regni e
all'interno del Regno Umano. In questo modo esse acquisiscono una salute
relativa nell'esistenza samsarica. La pratica della meditazione può aiutare a
raggiungere questo obbiettivo?
Dal punto di vista Buddista la risposta è duplice. Se ci riferiamo al livello
più profondo della mente di qualcuno, la risposta è no. Se ad esempio una
persona è profondamente convinta che "la vita è un inferno", allora la
meditazione non può aiutare, o meglio, questa persona non sarebbe in grado e
nemmeno predisposta ad intraprendere una disciplina come la meditazione. In
questo caso è più indicata la terapia. La meditazione non può penetrare questo
regno. L'altro aspetto della risposta è questo: si dice che nel Regno Umano in
effetti attraversiamo -in modo meno intenso e più superficiale- sconvolgimenti
neurotici che sono come i modi di essere degli altri cinque regni. A volte ci
capita lo stesso di dire che la vita è un inferno, ma poi diciamo che non lo
pensavamo veramente. A volte ci fingiamo sordi e muti di fronte al dolore altrui
ma poi seguiamo il nostro desiderio di fare qualcosa al proposito. In poche
parole, siamo relativamente sani anche se ci sono momenti in cui perdiamo il
nostro buon senso e moralità. La meditazione può affrontare questi scnvolgimenti
neurotici che hanno luogo nel contesto del Regno Umano. In senso stretto, la
psicoterapia che ho descritto sopra non è necessaria in questo caso, ma
rappresenterebbe anzi un passo indietro; potrebbe diventare un mezzo per creare
una base più solida o un regno più stabile al di fuori degli sconvolgimenti
neurotici temporanei.
Sebbene tutto ciò faccia pensare a una divisione piuttosto netta tra la
psicoterapia e la meditazione c'è una domanda che riavvicina le due cose; la
domanda è: come facciamo a sapere se una persona è in uno dei cinque regni -nel
qual caso è indicata la terapia- o nel Regno Umano nel momento in cui attraversa
una crisi neurotica intensa, nel qual caso la meditazione potrebbe aiutare? Per
rispondere a questa domanda dovremmo valutare a) la solidità (intensità e
durata) della crisi neurotica e b) l'apertura psicologica verso l'esperienza del
dolore. Vi chiarisco questo concetto.
All'estremità più profonda della solidità c'è l'esperienza psicotica dei regni.
Non voglio soffermarmi in questo caso sull'approccio Buddista alla psicosi (si
veda Podvoll, 1985; Clifford, 1984; the Maitri Program, 1989, Giornale di
Psicologia Contemplativa, 1988). Nel mezzo ci sono le esperienze intense dei
regni inferiori, che a causa della loro intensità danno un'esperienza della
realtà molto solida ma orribile. Questa solidità diminuisce nell'esperienza
vacillante ed incerta del Regno Umano, che si trova all'estremità più
superficiale della dimensione di intensità. L'intensità dei regni inferiori ha
generalmente un effetto "mutante" sulla nostra consapevolezza del dolore. La
solidità di questi regni viene infatti superata diventando insensibili al
(proprio) dolore. Poiché la consapevolezza analitica è in una certa misura
disponibile nel meno intenso Regno Umano, diventiamo più consapevoli del dolore
e di dove ci troviamo psicologicamente. Quindi le caratteristiche di questo
regno ci danno un'idea di dove e quando indicare la terapia oppure la
meditazione. Quest'ultima presuppone a)la volontà di abbandonare la solidità
dell'esistenza concepita mentalmente da una persona e di permettere una qualche
incertezza nell'atteggiamento verso la vita e b)la volontà di considerare la
scoperta e il riconoscimento del dolore. Se questa volontà manca completamente
nello stato mentale o è fortemente contrapposta dal bisogno di mantenere e
rafforzare la propria esistenza contro la minaccia del dolore, allora la pratica
della meditazione non può penetrare questo stato mentale mentre possono altre
forme di terapia.
Questo riflette il fatto che la meditazione Buddista mira ad uno scopo diverso
dal trovare un equilibrio nel mondo del samsara. Mira allo scopo di uscirne e
rientrarne con la consapevolezza analitica. Questa è la via contemplativa. Se la
meditazione è usata per trovare un "angolino" sicuro nel mondo samsarico essa è
privata del suo scopo spirituale e il suo uso è limitato a ciò che Chögyam
Trungpa ha coniato "materialismo spirituale" (Trungpa, 1973). Esso è l'approccio
dell'ego alla spiritualità; è un tipo di "body building" mentale per mezzo di
discipline spirituali per rafforzare e mantenere il proprio ego, invece di
distruggere la sua esistenza illusoria. In particolare,
i cosiddetti Regni di Dio, che già dal nome indicano il desiderio orgoglioso di
non essere affetti dalla realtà dolorosa della vita umana, sono strettamente
connessi all'uso materialistico spirituale delle discipline contemplative per l'autocompiacenza
e l'accrescimento personale.
La meditazione Buddista e la psicoterapia interpersonale
E' giusto dire che la psicoterapia serve a trovare un "angolino"
psicologicamente sicuro e felice nel mondo del samsara? E' senz'altro vero che
molte terapie mirano a condurre le persone ad un'esistenza migliore e più sana
-il Regno Umano- nel mondo del samsara. Queste terapie, come ad esempio quelle
comportamentali, non mirano in particolar modo a trasformare i loro clienti in
santi o esseri illuminati; esse mirano a cambiare le abitudini mentali e le
costanti di comportamento dei loro clienti, in modo che essi possano condurre
una vita un pò più felice. Tuttavia, le psicologie interpersonali e le terapie a
queste connesse non suggeriscono forse ulteriori traguardi che sono simili ai
traguardi delle discipline contemplative? Penso di sì. Ma possono raggiugere
tali obbiettivi? O piuttosto possono farlo meglio delle tradizioni contemplative
a cui sembrano assomigliare? Per quanto riguarda il prossimo futuro ci sono
motivi per rispondere di no. Ecco alcuni di questi motivi. Prima di tutto, la
psicologia interpersonale trova le sue origini nella nostra psicologia
occidentale. Perfino l'idea centrale di una psicologia che trascende l'ego ha
solide radici nella nostra psicologia, a cominciare dai suoi fondatori Wilhelm
Wundt e William James. L'approccio occidentale ad una psicologia senza ego è
molto intellettualistico. E' nato dal desiderio di sviluppare una psicologia che
non si basi sulla supposizione logicamente problematica di un omino o omuncolo
che vive da qualche parte nel nostro apparato fisico o mentale. Non è nato dal
desiderio di estirpare le radici della neurosi per superare l'illusione dell'ego
che troviamo in molti esseri umani. Di conseguenza l'approccio occidentale non
ha portato a un grande interesse per lo sviluppo sistematico delle discipline
mentali per trascendere questa convinzione radicata. Queste discipline e la loro
comprensione sono assenti.
In secondo luogo, le tradizioni contemplative e in particolar modo il Buddismo
hanno sempre cercato mezzi pratici per superare l'ego. Di conseguenza, non solo
hanno sviluppato una psicologia e una psicoterapia contemplative prive di ego
(si veda Il Giornale di Psicoterapia Contemplativa) che hanno come traguardo
quello di portare le persone a ciò che abbiamo definito il Regno Umano. Esse
hanno anche sviluppato una gran varietà di mezzi e metodi per portare le persone
alla sanità relativa di ciò che abbiamo chiamato il Regno Umano e quindi alla
realizzazione dell'assenza di ego, cioè la chiarezza della sanità di mente di
base. L'efficacia di questi mezzi e metodi è stata messa alla prova da
generazioni di praticanti, per più di due millenni. La conoscenza psicologica
degli stadi dello sviluppo meditativo che è stata accumulata è molto più precisa
e sofisticata di ciò che viene offerto dagli psicologi interpersonali, che
offrono tecniche di meditazione personalizzate quale mezzo di crescita
personale.
Un buon esempio di questa conoscenza sofisticata è il manuale di meditazione
recentemente tradotto di Takpo Tashi Namgyal (1987) scritto in Tibet nel
sedicesimo secolo. Questo manuale, che è tuttora molto usato, contiene le
istruzioni della pratica della meditazione Buddista di shamatha e vipashyana,
dai livelli iniziali fino al livello della realizzazione del mahamudra o
illuminazione, raccolti in più di un millennio. Come ogni manuale, anche questo
è usato con la guida indispensabile di un maestro di meditazione qualificato.
Proprio come non è possibile imparare -senza fare errori- i metodi e le tecniche
della ricerca sperimentale solo da un libro, allo stesso modo non possiamo fare
a meno di un maestro di meditazione quando impariamo a praticare "i metodi di
ricerca" mentale della meditazione Buddista. Il manuale di Tashi Namgyal
illustra molto bene come tecnicamente e psicologicamente sofisticata sia la sua
tradizione. Questo va ben oltre gli approcci speculativi e spesso molto naive
alla meditazione che troviamo nelle nostre nuove psicologie interpersonali. Non
dico questo per scoraggiare la gente che lavora in questo campo. Al contrario,
vorrei solo far notare che fortunatamente c'è molto da imparare dalle tradizioni
contemplative come il Buddismo. Una buona strategia per lo sviluppo di una
psicologia interpersonale "matura" è quella di studiare una tradizione
contemplativa e prendere parte completamente all'esercizio mentale che essa
offre. Ciò potrebbe significare che dovremmo essere disposti ad abbandonare la
nostra psicologia convenzionale almeno per un po'. In questo modo possiamo
impedire di limitare la nostra comprensione della via contemplativa
reinterpretando il suo approccio secondo nozioni psicologiche e
psicoterapeutiche conosciute.
Infine, non abbiamo nella nostra psicologia occidentale una tradizione ben salda
di introspezione. Sebbene la psicologia in origine fu fondata da Wundt e James
come scienza della mente, la mancata creazione di metodi affidabili di
introspezione ha condotto lo sviluppo della psicologia nella direzione della
ricerca del comportamento umano. Benché sia tornato l'interesse nel
"comportamento mentale" e "formazione di concetti" ecc. con la psicologia
conoscitiva, la comunità scientifica tuttora non ritiene che l'introspezione
possa essere un metodo affidabile per esplorare i fenomeni mentali. Di
conseguenza, non abbiamo ancora molti psicologi preparati scientificamente che
siano anche preparati nei metodi introspettivi di cui la meditazione Buddista è
un esempio. Inoltre, coloro che sono preparati sia nei metodi contemplativi che
scientifici spesso riscontrano un tale abisso tra i due che non vedono alcun
collegamento. Temono che qualsiasi sforzo per colmare la lacuna possa far loro
finire a testa in giù nelle Acque Torbide della Nuova Età o nel Mar di Aquario.
Il dialogo fra l'approccio scientifico e quello contemplativo nell'esplorare la
natura della mente umana è ancora agli albori.
Osservazioni conclusive
Abbiamo parlato del concetto di salute dal punto di vista contemplativo ed
esplorato la relazione fra meditazione e psicoterapia dal punto di vista
contemplativo del Buddismo. All'inizio della nostra discussione ho fatto notare
che secondo l'aspetto dello sviluppo delle psicologie contemplative non c'è un
modo di comprendere la salute, la sanità di mente e la meditazione. Piuttosto,
la nostra comprensione e lo sviluppo cambiano mentre percorriamo il sentiero.
Non c'è una psicologia contemplativa statica: al cambiare della nostra immagine
dell'uomo, di noi stessi e del mondo, cambia anche la nostra psicologia.
Da questo punto di vista è comprensibile che alcuni psicologi siano portati ad
esplorare la meditazione, la psicoterapia e la salute secondo la psicologia
convenzionale. Comunque, bisognerebbe essere consapevoli dei limiti del modo
specifico di vedere. Secondo una psicologia edonistica potremmo ad esempio
chiedere: che tipo di soddisfazione porta la meditazione? Secondo una psicologia
utilitaristica potremmo chiedere: che cosa ottengono le persone praticando una
disciplina contemplativa? Una psicologia evolutiva potrebbe provare a rispondere
qual è il valore della meditazione in termini di sopravvivenza. Rende le persone
più capaci a difendersi, ecc? Oppure potremmo provare a esaminare la pratica
della meditazione Buddista secondo la terapia comportamentale. Sembra ad esempio
che l'aspetto shamatha della meditazione - lo sviluppo di una certa stabilità
mentale - potrebbe essere descritto secondo l'esercizio alla desensibilizzazione
e al rilassamento. L'aspetto vipahyana - lo sviluppo della visione profonda
attrverso la consapevolezza analitica - sembra aver qualcosa in comune con
l'approccio della psicoanalisi.
Dal punto di vista contemplativo queste descrizioni e confronti possono essere
utili solo come primo piccolo passo verso una qualche comprensione ulteriore
della meditazione. Comunque, continuare a far affidamento alla terapia
comportamentale o la psicoanalisi sicuramente ci impedirebbe di arrivare a
capire davvero la via contemplativa, i suoi metodi e la sua psicologia.
Naturalmente, la questione è che dovremmo essere consapevoli che le domande che
poniamo e le risposte che otterremo riflettono il nostro approccio psicologico
alla meditazione. Tali approcci non coincidono necessariamente con l'approccio
psicologico contemplativo della sanità di mente di base. Corriamo il rischio di
modificare ciò che sentiamo circa le discipline contemplative secondo le idee
preconcette a noi familiari. In questo modo sembriamo solo sentire ciò che
conosciamo (che pensiamo di conoscere). In effetti non impariamo niente.
Ovviamente, corriamo questo rischio anche quando esploriamo la relazione molto
vaga tra psicoterapia, meditazione e salute. Se la nostra comprensione di questi
tre concetti è limitata a causa delle convinzioni (psicologiche) che essi sono
stabili e ben saldi per noi, allora anche i risultati che otteniamo potrebbero
essere limitati.
E' perciò importante -particolarmente adesso che stiamo approfondendo la nostra
comprensione dell'effetto della mente o dei pensieri sul benessere fisico,
sociale e mentale- esaminare interamente, personalmente e a mente aperta tutte
quelle tradizioni contemplative che si sono specializzate così a lungo nei
metodi per la comprensione della mente e per lo sviluppo di un modo di vita
compassionevole.
Infine, la visione profonda, la chiarezza mentale e la compassione sono
assolutamente indispensabili se siamo psicoterapisti. Il grado di visione
profonda e compassione che possiamo raggiungere determina quale sarà la bravura
di un terapista. E'quindi necessario sviluppare più che possiamo la chiarezza
mentale e la compassione. La nostra conclusione può essere quindi che la pratica
della meditazione Buddista è utile e positiva soprattutto per lo psicoterapista.
La meditazione non è psicoterapia. Per i pazienti di psicoterapia la meditazione
verrà in seguito, vale a dire quando, con l'aiuto del loro psicoterapista, hanno
hanno raggiunto uno stato di salute relativa, e la terapia è quindi terminata.
Da: http://www.maitreya.it/menurivista/dharma4/psicoterapia.htm