Leggiamo per l'ultima volta alcuni brani tratti da L'arte della
contemplazione di Alan W. Watts:
[(Qui parla del praticante in meditazione)] "Uno non ascolta
- ma semplicemente ode tutti i suoni che stanno emergendo dal silenzio, senza
fare alcuno sforzo per collocarli o identificarli. Così pure, uno non guarda, ma
solo vede la luce, il colore e la forma giocare con gli occhi, come se anch'essi
emergessero momento per momento, dal vuoto. Similmente i pensieri sono trattati:
allo stesso modo dei suoni e, se sorgono, sono semplicemente osservati nel loro
andare e venire senza (formulare) commento, «ascoltandoli» allo stesso modo che
uno ascolterebbe il cinguettio degli uccelli sul tetto. [...]
È possibile che durante la contemplazione vi sia il sorgere di visioni o di
stati estatici di coscienza, ed è una tentazione naturale il pensare ad essi
come al fine della contemplazione. Tuttavia, il tentativo di prolungare questi
stati, o di riconquistarli quando stanno scomparendo, è come contrarre i muscoli
facciali per vedere chiaramente, ed è uno sforzo per interrompere il flusso
naturale di quanto sta accadendo ora. [...] La contemplazione cessa non appena
vi è una qualsiasi ricerca di risultati. [...]
Noi abbiamo imparato, per lo più da bambini, a esercitare un atto di vigore
facendo cose che richiedono vigore. Eppure lo sforzo di fare sforzi, essendo
sovrabbondante, nuoce all'impiego dell'energia muscolare, poiché queste sforzi
diventano sforzi contro lo sforzo, ostacoli autoimposti. È come se, tirando, i
tricipiti lavorassero contro i bicipiti. Quando questo sovrabbondante impiego di
sforzo scompare, diventa ovvio che le decisioni di fare questo o quello, e le
conseguenti azioni fisiche, accadono da se stesse come ogni altra cosa.
L'operazione libera infatti non è di certo causata da un «io» puramente
astratto. Essa sorge dall'intelligenza totale dell'organismo, allo stesso modo
dello sviluppo del cervello o della digestione del cibo, e richiederà l'impiego
del ragionamento consapevole nelle situazioni in cui il ragionamento sia uno
strumento appropriato" (pp. 107-115).
Qualche parola di commento relativamente alla seconda parte
del brano.
Siamo ovviamente abituati a sforzarci per ciò che richiede sforzo. Ma questo
atteggiamento crea una memoria sedimentata, un'abitudine, che è
controproducente: lo sforzo di fare sforzi. E questo sforzo di fare sforzi ha
una caratteristica estremamente deturpante, ovvero l'agire in uno stato di
contrazione sempre eccessivo rispetto a ciò che sarebbe dovuto. Qualcosa di
contrario all'azione pura, azione che invece nasce liberamente da sé, con lo
sforzo strettamente necessario al suo compiersi, e che si origina e si svolge
senza alcun senso di un io a deciderla, a preventivarla, a progettarla, a
metterla in atto.
Dietro allo sforzo non necessario, dietro alla filosofia dello sforzo di fare
sforzi c'è tutta una visione della vita. Quella all'insegna dell'io da una parte
e il resto della realtà dall'altra. Quella della lotta. C'è invece un'altra
possibilità, una intelligenza che sorga non dal mentale, non dall'io, ma dalla
realtà tutta dell'essere umano, nella quale il pensiero prodotto non svolga
altro compito che non la soluzione a una situazione che strettamente lo
richieda?