Naturalmente quando parliamo di 'esercizi' entriamo nel
regno del paradosso. La meditazione si muove continuamente su questo filo di
rasoio.
Esercizio: cioè ti sforzi, segui certe istruzioni, svolgi il compito che ti è
stato dato in una determinata maniera, con una particolare impostazione
fisico-mentale. Fai un esercizio e quindi lo vuoi sviluppare correttamente, con
disciplina. L'idea di 'esercizio' soprattutto determina la mente verso una certa
finalità: cioè l'impostazione di fondo è quella per la quale se pratichi per un
certo periodo, con costanza, impegno, se lavori duramente su di te, allora
riuscirai a ottenere dei risultati. Se ti impegni in uno sport, otterrai
capacità che prima non avevi; se ti impegni nello studio di una lingua
straniera, piano piano la conoscerai bene; se ti impegni nella soluzione di un
compito di matematica, attraverso le tue conoscenze e i tuoi tentativi,
riuscirai a risolverlo. Altrimenti hai fallito, non hai svolto correttamente il
tuo esercizio.
Ecco: è evidente che nel nostro ambito non ci muoviamo all'interno di questa
dimensione. L'istante presente è esso stesso nirvana, autentica liberazione e
svuotamento completo. Non c'è una pratica per raggiungere il nirvana. Il nirvana
non è la conclusione logica di un lavoro prolungato su di sé, non è la soluzione
di un problema su cui ci si è impegnati a lungo. Non c'è alcun sentiero sul
quale incamminarsi e che conduca alla realizzazione.
Eppure: gli 'esercizi'. Eppure Buddha si sedette sotto il cosiddetto albero
della Bodhi e, dopo un intenso periodo di indagine e pratica interiore profonda,
raggiunse - così si narra - il nirvana. Eppure c'è quella cosa che facciamo e
che chiamiamo 'meditazione'. E la facciamo in un certo modo, piuttosto che in un
altro: mettendoci in una certa posizione, dirigendo la consapevolezza su certi
aspetti della nostra persona e usandola in un certo modo, ecc.
Su questo paradosso dobbiamo muoverci e dobbiamo permanere: se in esso
perduriamo, si rivelerà fruttifero. Mantenersi nel paradosso significa non
svolgere gli esercizi con atteggiamento dualistico di soluzione di un problema e
nemmeno con atteggiamento di ignavia e noncuranza. La pratica deve essere
equamente distante da questi due estremi: asciutta, anonima, lucida e non
giudicante. Soprattutto l'esercizio deve essere anche un non-esercizio.
Devi praticare in un certo modo, ma finché dici a te stesso: "Devo praticare in
un certo modo", ti irrigidisci, ti costringi in modo coatto, serri i denti e ti
sforzi a fare bene ciò che fai. Ti svii. Praticare in un certo modo lo si
ottiene dimenticandosi di dover praticare in un certo modo, ma nondimeno
praticando in un certo modo! È solo un gioco di parole?