Una premessa
la meditazione come via
tra vipassana e zazen




 

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Una premessa


Naturalmente quando parliamo di 'esercizi' entriamo nel regno del paradosso. La meditazione si muove continuamente su questo filo di rasoio.
Esercizio: cioè ti sforzi, segui certe istruzioni, svolgi il compito che ti è stato dato in una determinata maniera, con una particolare impostazione fisico-mentale. Fai un esercizio e quindi lo vuoi sviluppare correttamente, con disciplina. L'idea di 'esercizio' soprattutto determina la mente verso una certa finalità: cioè l'impostazione di fondo è quella per la quale se pratichi per un certo periodo, con costanza, impegno, se lavori duramente su di te, allora riuscirai a ottenere dei risultati. Se ti impegni in uno sport, otterrai capacità che prima non avevi; se ti impegni nello studio di una lingua straniera, piano piano la conoscerai bene; se ti impegni nella soluzione di un compito di matematica, attraverso le tue conoscenze e i tuoi tentativi, riuscirai a risolverlo. Altrimenti hai fallito, non hai svolto correttamente il tuo esercizio.
Ecco: è evidente che nel nostro ambito non ci muoviamo all'interno di questa dimensione. L'istante presente è esso stesso nirvana, autentica liberazione e svuotamento completo. Non c'è una pratica per raggiungere il nirvana. Il nirvana non è la conclusione logica di un lavoro prolungato su di sé, non è la soluzione di un problema su cui ci si è impegnati a lungo. Non c'è alcun sentiero sul quale incamminarsi e che conduca alla realizzazione.
Eppure: gli 'esercizi'. Eppure Buddha si sedette sotto il cosiddetto albero della Bodhi e, dopo un intenso periodo di indagine e pratica interiore profonda, raggiunse - così si narra - il nirvana. Eppure c'è quella cosa che facciamo e che chiamiamo 'meditazione'. E la facciamo in un certo modo, piuttosto che in un altro: mettendoci in una certa posizione, dirigendo la consapevolezza su certi aspetti della nostra persona e usandola in un certo modo, ecc.
Su questo paradosso dobbiamo muoverci e dobbiamo permanere: se in esso perduriamo, si rivelerà fruttifero. Mantenersi nel paradosso significa non svolgere gli esercizi con atteggiamento dualistico di soluzione di un problema e nemmeno con atteggiamento di ignavia e noncuranza. La pratica deve essere equamente distante da questi due estremi: asciutta, anonima, lucida e non giudicante. Soprattutto l'esercizio deve essere anche un non-esercizio.
Devi praticare in un certo modo, ma finché dici a te stesso: "Devo praticare in un certo modo", ti irrigidisci, ti costringi in modo coatto, serri i denti e ti sforzi a fare bene ciò che fai. Ti svii.  Praticare in un certo modo lo si ottiene dimenticandosi di dover praticare in un certo modo, ma nondimeno praticando in un certo modo! È solo un gioco di parole?