"Chōsa aveva l'abitudine di
partecipare alla speciale sessione di meditazione intensiva che avveniva ogni
anno con il maestro Hakuin. Ma non aveva mai ottenuto nulla.
Alla fine Hakuin, a conclusione della sessione, gli disse: «Tu vieni qui ogni
anno, come un'anatra che si tuffi nell'acqua quando fa freddo. Ma fai un viaggio
inutile e non ne trai nessun beneficio. Chissà quanti sandali di paglia avrai
consumato per venire qui ogni anno. Di gente come te non so che farmene, perciò
non tornare più!».
Sconvolto, Chōsa si
disse: "Che uomo sono? Se non raggiungerò l'illuminazione questa volta, non
ritornerò a casa vivo. Mi metterò dunque a meditare fino all'estremo".
Ponendosi come limite massimo sette giorni, si sedette su una rete distesa sulla
riva del mare.
Ma, dopo sette giorni di meditazione senza mangiare e senza dormire, non aveva
ancora ottenuto nulla. Non gli rimaneva che buttarsi in mare.
Togliendosi i sandali secondo il rito tradizionale dei suicidi, entrò in acqua.
In quel momento, vedendo il luccichio del mare e il sole che sorgeva tra rossi
bagliori, all'improvviso si liberò di ogni pensiero e si risvegliò".
Bene. Qui è indicato un classico
percorso a tappe, nel quale spesso il meditante è coinvolto.
All'inizio si medita con faciloneria, con mancanza di reale consapevolezza. Si
inizia a praticare magari per curiosità, anche per essere più rilassati nella
vita o per un obbligo interiorizzato. Certamente può essere un inizio; di fatto
è per molti l'inizio. Ma se non si supera questo ostacolo, non si arriva a nulla
di concreto, di reale.
Superato questo primo scoglio, ce ne è un altro: il suo opposto. Se ho compreso
che una pratica distratta, semplicistica, priva di un reale e retto impegno, non
conduce a nulla, scelgo la via estrema: quella dell'impegno coatto, della
pratica forzata. Mi atteggio di fronte alla meditazione come un atleta in una
gara: un approccio agonistico, virtuosistico. Quanto ego, che estremismo:
troppo! È uno degli errori più frequenti anche tra menti sincere che si vogliono
impegnare in un serio lavoro di pratica meditativa: praticare con estremo
impegno per raggiungere qualcosa, con questo pensiero fisso: l'illuminazione, la
comprensione, la realizzazione!
Ma anche questa opzione non conduce troppo lontano. Finché si medita per un
motivo, anche il più nobile, paradossalmente non si può comprendere la reale
natura della meditazione. I pensieri, le preoccupazioni, sono anche troppe: se
ci aggiungiamo poi anche quello di una presunta illuminazione da raggiungere...!
Si deve realizzare il più presto possibile che non c'è nulla da raggiungere,
altrimenti ricadiamo nel solito dualismo. C'è solo da realizzare.
La via estrema del rigore ("senza mangiare e senza dormire") non è naturale, è
fuori dalla naturalezza dell'essere. È violenta e separatrice, non benevola e
unificatrice.
Eppure tutto questo, il percorso fino ad ora delineato, in un certo senso ha la
sua funzione, non fosse altro che per comprendere cosa è da fare e cosa da
abbandonare. Non è una comprensione intellettualistica, mentale: è vissuta. In
effetti tutto è da abbandonare: il motivo per cui meditiamo, l'idea che abbiamo
della stessa meditazione, le nostre aspettative, i giudizi che sorgono
continuamente sulla meditazione stessa. È un momento estremo, come quello di chi
si accinge al suicidio. Sei tu, qui, ora, nudo di tutto. Le tue illusioni, le
tue speranze, i tuoi sogni sono a tacere.
Ed ecco: la realtà, nella sua semplicità, nel suo essere così, presente,
risuonante, vera.