"Concepire la verità come qualcosa di esterno" (D. T. Suzuki)
Continuiamo a leggere qualche brano dai Saggi sul Buddhismo Zen di D.T.
Suzuki:
"Concepire la verità come qualcosa di esterno che il soggetto
deve apprendere, è una veduta dualistica che può riflettere le condizionalità
proprie al comune intelletto ma che non corrisponde a ciò che lo Zen afferma;
secondo lo Zen, noi viviamo direttamente nella verità e grazie alla verità, che
dunque non ci può essere esterna. Hsuan-sha (Gensha) dice: «È come se, immersi
fin sopra la testa nell'acqua del grande oceano, tendessimo le braccia ad
implorare acqua!». Così quando un monaco gli chiese: «Che è il mio Io», egli
subito rispose: «Che te ne faresti, di un Io?». In termini intellettuali, egli
intendeva dire che, non appena cominciamo a parlare di un Io, noi stabiliamo
inevitabilmente il dualismo di Io e non-Io, cadendo nell'errore del pensiero
discorsivo. Noi ci troviamo nell'acqua, questo è il fatto; dunque rimaniamoci,
direbbe lo Zen, perché se ci diamo a chiedere acqua creeremo un rapporto di
esteriorità rispetto ad essa, e quel che fino ad allora era stato nostro ci sarà
tolto. [...]
Lo Zen non fa mai appello alla nostra facoltà raziocinante, ma punta
direttamente sull'oggetto. In una certa occasione, Hsuan-sha offriva il tè ad un
ufficiale di nome Wei, che gli chiese: «Che si vuol significare quando si dice
che, pur avendolo ogni giorno, noi non lo conosciamo?». Invece di rispondere,
Hsuan-sha prese un pezzo di dolce e glielo offrì. L'ufficiale mangiò il dolce,
poi ripeté la domanda, al che il maestro disse: «È che non lo conosciamo perfino
quando l'usiamo ogni giorno». Un'altra volta venne da lui un monaco che voleva
sapere come si entra nel sentiero della verità. Hsuan-sha chiese: «Odi il
mormorio del ruscello?». «Sì, lo odo», disse il monaco. «Ecco un modo per
entrare», fu l'insegnamento del maestro. Il metodo di Hsuan-sha consisteva
dunque nel far sì che il ricercatore della verità realizzasse direttamente in sé
ciò che essa è, invece di trasmettergli una conoscenza di seconda mano.
[...] Se alzo così la mano, c'è lo Zen. Ma se affermo di aver alzato la mano,
non c'è più lo Zen. [...] Un'affermazione è Zen solo in quanto atto, non in
quanto ci si riferisce a quel che con essa viene affermato. Nel dito puntato
verso la luna non vi è Zen, ma se si considera il dito puntato in se stesso,
fuori da ogni riferimento esterno, in esso vi è Zen" (dal cap. VI, parr.
VII-VIII).