"I pesci nell'oceano" (Dallo Shobogenzo)
la meditazione come via
tra vipassana e zazen




 

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"I pesci nell'oceano" (Dallo Shobogenzo)


Cominciamo oggi a leggere e commentare alcuni passi tratti dallo Shobogenzo, un'opera estremamente importante della tradizione zen e che consiste in una raccolta di discorsi e scritti di Dogen, eminentissimo maestro zen del XIII secolo, fondatore della scuola Soto in Giappone. Le due scuole principali dello zen sono lo zen Soto e lo zen Rinzai. Differiscono per numerosi aspetti, il più importante dei quali è che per il primo la realizzazione consiste nella pratica stessa (meditazione e illuminazione coincidono), mentre per il secondo la meditazione - zazen - è un mezzo per un fine (l'illuminazione).
Iniziamo con un brano che fa parte del primo saggio, forse il più fondamentale, il Genjokoan:

"I pesci nell'oceano considerano infinita l'acqua, e gli uccelli pensano che il cielo sia senza limiti. Pure, né i pesci né gli uccelli sono stati separati dal loro elemento. [...] Se ci sono uccelli o pesci che cercano di penetrare nel cielo o nell'acqua, non trovano né una via né un luogo. Comprendendo questo punto, si ha la realizzazione del risveglio nella nostra vita quotidiana. [...] Questa Via, questo luogo, non è né grande né piccolo, né se stessi né altri, né passato né presente: esiste esattamente per quello che è".

È molto nota quella storiella zen in cui un pesciolino chiede al pesce maturo cosa sia quel mare di cui sente sempre parlare, che ha cercato in ogni dove, ma che non ha mai trovato. Anche questo brano che abbiamo letto ora si pone sullo stesso piano: c'è questo elemento da cui non si è mai separati. Non si tratta di un'aderenza a qualche oggetto da fare proprio, piuttosto è un "essere in", una partecipazione, un essere inclusi all'interno di un certo spazio. Che è quello che è, così come è il mare per un pesce e il cielo per un uccello. È quello splendore inconsumato, di un'autenticità abbagliante, che è tale nella misura nella quale non ci pensi, non lo cerchi, non lo desideri. Non ne sei separato: appena te ne occupi (te ne preoccupi), te ne allontani. Non c'è uccello che cerchi di penetrare il cielo, non c'è pesce che tenti di penetrare l'acqua: non sarebbe questa la via, non consiste in questo la loro via, non li chiama a questo il loro luogo naturale. L'uno è nel cielo e l'altro nel mare, così, semplicemente. Allora realizzazione e quotidianità coincidono: essere immersi nella quotidianità, completamente, è uscire dalla domanda esistenziale intorno ad essa; realizzare è versare il caffè nella tazzina, pulirsi i denti, chiudere la porta, spostare lo sguardo, ... E intanto che lo fai, sei lì: proprio in quell'essere lì c'è la realizzazione. Appena infili il dubbio: "E la pratica?", oppure: "E la verità?", capitoli, cadi, entri nell'incubo senza fine della mente analitica.
Non c'è alcuna Risposta ad alcuna Domanda fondamentale della vita, se non le singole risposte agli altrettanto singoli eventi che si presentificano. Non si tratta di risposte intellettuali: è semplicemente un essere nella situazione. C'è il modo distratto e il modo attento: nel primo c'è l'uscita dal presente, c'è quel non cogliere la purezza dell'attimo infinito, c'è quel non abitare nel qui e ora del momento, c'è quel non vedere l'autenticità e la semplicità cui siamo chiamati dalla situazione presente, dal problema, dall'azione, dal pensiero attuali. Nel modo attento c'è la via, l'affrancamento dalle tensioni, la fine del lavoro affannoso: c'è la calma fiorita dal vedere con occhio terso. La calma tranquillamente, spontaneamente fiorisce in questo guardare in modo nuovo: il guardare stesso è rasserenamento, pace dentro. Non c'è nessuna pratica finalizzata alla felicità, all'amore, alla perfezione. È il vedere stesso, è qualcosa di istantaneo, di immediato.
È la Via del "quello che è". Non è autoanalisi, non è lavoro su di sé nel senso intimistico, psicologistico del termine; non è neppure il sentiero tracciato da altri, dal guru, dal maestro, dal Buddha ("né se stessi né altri"). È l'abbandono totale e fulmineo della tiritera dei problemi vissuti e risolti uno a uno, così come dell' infinito domandare. È l'essere in quello che è, "esattamente per quello che è". Non è la soluzione di un problema esistenziale, non è un metodo scolastico da mettere in atto. È quell'essere nell'è, nell dell'evento, nella sua potente gratuità e insondabile misteriosità. Tutto il resto è lasciato andare.