Continuiamo a leggere da Saper accompagnare - Aiutare gli altri e se stessi
ad affrontare la morte di Frank Ostaseski:
"Quando abbiamo il cuore aperto e la mente tranquilla, quando
la nostra attenzione è tutta concentrata sul momento presente, la realtà ci
appare indivisa. In quel momento sappiamo cosa fare. Ci sono tanti modi per
esprimere compassione attraverso il servizio, tanti gesti con i quali possiamo
servire il corpo, il cuore e la mente, o lo spirito. Il primo modo per esprimere
compassione è offrire al corpo il dono del contatto. Toccare è il modo più
antico per guarire. Essere toccati è uno dei bisogni fondamentali dell'uomo.
[...]
Negli ospedali il paziente viene toccato continuamente. Gli si cambia posizione
nel letto, lo si lava, gli si misura la temperatura, gli si preleva il sangue.
Medici e infermieri fanno iniezioni, applicano flebo e cateteri ed eseguono
controlli di ogni tipo. Tutte forme di contatto fisico. Mi chiedo però in quanto
casi questo contatto venga percepito come curativo. Chi sta per morire è
estremamente vulnerabile: si sente debole fisicamente, emotivamente esposto,
solo, e a volte molto confuso. Se si trova in ospedale, sarà portato a percepire
il contatto come violento, alieno e intrusivo. Inoltre, il dolore fisico è
pressoché continuo. Le funzioni fisiche sono alterate, e la dipendenza che ne
consegue può facilmente dare adito a sentimenti di espropriazione. Il problema è
ulteriormente aggravato dai tabù sociali sulla malattia da cui l'individuo è
affetto o dal suo aspetto fisico in trasformazione. Alcuni riferiscono di
sentirsi traditi dal proprio corpo, intoccabili e indegni di amore.
Il contatto comincia dal momento in cui entriamo nella stanza. Sono gli occhi a
toccare per primi l'ambiente e a focalizzarsi sulla persona che occupa il letto.
Lo sguardo può comunicare la nostra presenza o tradire il nostro disagio. Anche
l'ascolto è una forma di contatto. Può essere ricettivo, aperto, incoraggiante,
oppure selettivo e motivato da obiettivi preconcetti. Inoltre, tocchiamo l'altro
con la voce. Il nostro modo di parlare può essere misurato e pacato,
deliberatamente inteso a comunicare premura e rassicurazione. O al contrario può
essere brusco e affrettato, come se avessimo cose più urgenti da sbrigare
altrove.
Non c'è bisogno di fare un corso di massaggio per offrire un contatto fisico
affettuoso a un altro essere umano. Possiamo fidarci della nostra tenerezza
naturale. Quello che conta non è la tecnica o dove mettiamo le mani, quanto
piuttosto la qualità affettiva del contatto e la disponibilità a prestare la
massima attenzione. Mia nonna faceva splendidi massaggi alla testa, aveva mani
delicatissime. Mi dava l'impressione di avere a disposizione tutto il tempo del
mondo, e che io fossi la cosa più importante. Tutti abbiamo bisogno di toccare e
di essere toccati, e chi sta per morire non fa eccezione. Naturalmente
all'inizio è necessario essere cauti, procedere con delicatezza, sempre pronti a
farsi guidare dalle reazioni di chi riceve il contatto. Consapevoli dei rischi a
cui si va incontro, che vanno dalla possibilità di sentirsi in imbarazzo al
possibile rifiuto da parte dell'altro. Ma qual è l'alternativa? Il non
toccare? La solitudine che regna nelle case di cura parla da sé.
Sono innumerevoli le occasioni per offrire al malato che assistiamo un contatto
fisico che esprima compassione e rassicurazione e al tempo stesso arricchisca la
qualità del rapporto, senza bisogno di avere più tempo a disposizione. Per
esempio, poggiare con delicatezza la mano sul petto di una persona che fa fatica
a respirare può avere un effetto tranquillizzante. Per sentire il polso ci
vogliono almeno trenta secondi: perché non approfittarne per stabilire un
sincero contatto umano? Voltare il paziente nel letto può essere una buona
occasione per massaggiargli la schiena e applicare una lozione. Mettere una
salvietta rinfrescante su una fronte sudata può essere un gesto di gentilezza
che rinfranca. A volte basta solo tenere la persona per mano. In ultima analisi,
è la consapevolezza che guarisce. Toccare è solo il veicolo. Se il gesto esprime
consapevolezza, ogni forma di contatto fisico avrà effetti trasformativi. È
qualcosa che chiunque di noi può fare" (pp. 39-42).