Continuiamo a leggere brani tratti da Celebrazione del quotidiano di Colette
Nys-Mazure:
"Seduta al mio posto, mi chiedo che cosa in noi mantiene vivo il desiderio di
andare avanti comunque, ad ogni età e in ogni circostanza. Per alzarsi e
mettersi in marcia, spesso bisogna essere chiamati per nome. [...]
Appartenere a un luogo, quello di nascita e quello di elezione. Dedicarvisi,
invece di rivolgere gli occhi altrove, avanti o indietro. Gioire di una certa
luminosità del cielo a quell'ora, delle stagioni, dei paesaggi: è un fiume o una
spiaggia, una radura in collina o una città, è casa mia. Io sono qui, adesso. Ma
con lo stesso fervore spostarmi. Non necessariamente lontano, ma cambiare punto
di vista, scoprire cose del tutto differenti, prendere coscienza della
relatività, per meglio discernere cosa fa del nostro «qui» un luogo unico.
Partire per meglio riscoprire. [...]
Forse siamo veramente noi stessi solo nella meraviglia, nella loda, nella
riconoscenza. Occasioni in cui si esprime la parte migliore del nostro essere,
che canta, si dilata [...].
L'ammirazione è solo una dei nomi della Speranza, una piccola via di Speranza.
Uscire dall'io, spesso angusto e cupo, per lasciarsi cogliere
dall'ammirazione. Raschiare dall'essere lo strato dell'abitudine e d'usura così
da contemplare quanto di bello si presenta agli occhi spenti, assuefatti. [...]
Accogliere come un prodigio il primo viso: quello più familiare, tanto vicino
che non lo si vedeva più, o lo sconosciuto incontrato per strada; il volto
dell'altro che viene verso di noi con il carico di desideri e paure che possiamo
sentire come nostro, anche se lui ci rimane ignoto. Lasciarsi toccare dai
compagni di metropolitana: la mano del bambino nero nel palmo rosa della madre,
la guancia adolescente appoggiata sulla spalla amica in giubbotto di pelle, la
discussione appassionata sul giornale semiaperto fresco fresco. Fratelli umani
che con noi vivete!
Distogliersi da se stessi, staccarsi dagli errori, dagli insuccessi,
entusiasmarsi per darsi alla bellezza che salva [...].
Vi scrivo con entusiasmo. [...]
Vi scrivo da una solitudine.
Tutti gli uccelli han preso il volo, la casa è stranamente silenziosa. Dopo il
vocio dei risvegli, la febbre delle partenze [...] c'è il vuoto, vertiginoso.
[...] C'è tutto il disordine da risistemare, le spese e già il pranzo... ma da
dove cominciare? [...]
Anzitutto riposo. Assaporare questo momento senza cedere al desiderio furtivo di
ritornare a letto, senza stordirsi subito con le faccende. Un istante di pace
sul bordo del tavolo di cucina ancora ingombro dei resti della colazione o nel
cantuccio prediletto. La tazza di caffè gustata senza che un gomito maldestro la
faccia versare sulla gonna o che una richiesta urgente [...] vi scuota.
Lo sguardo posato sull'albero alla finestra. Lunga spiaggia dove correre,
correre, come a cinque anni, a quindici o a trenta. L'io si ricompone attorno a
questa cavità così piena. La posta cade nella buca delle lettere. Il colpo
familiare provoca lo slancio: Chi pensa a noi, a me? Una lettera da
gustare. Il giornale aperto collega di botto col mondo. Il campanello
dell'ingresso: la vicina, con le mani infarinate Non avrebbe mica un uovo?
Il telefono rompe il silenzio: Sei tu? Sono pochi quelli che possono
risparmiare formule di presentazione, coloro la cui voce ci colpisce nel vivo, e
possono permettersi l'indiscrezione: Che cosa fai? A cosa pensi? Ecco! Il meccanismo è ripartito: tutti i legami invisibili che intrecciamo
continuamente, che formano la trama della nostra vita, presuppongono anche una
stoffa propria, quella stessa che si tesse nel silenzio, che chiamiamo giardino
segreto, intimità, raccoglimento. Che valore avrebbero le nostre relazioni se
non avessero alla base quell'esistenza silenziosa?" (pp. 57-58, 114-115,
121-122).