Una volta il maestro Tōrei stava parlando dell’insegnamento
buddhista a Saga, un paese sulla montagne di Kyoto. Si era in pieno inverno e
faceva così freddo che tutti gli ascoltatori tremavano.
Tōrei tuonò: «Quelli di voi che si fanno spaventare dal freddo dovrebbero
tornarsene alla vita mondana subito! Come potete imparare lo Zen? Perché non lo
cercate nei vostri cuori? I pesci vivono nell’acqua, ma non sanno che c’è
l’acqua; gli uomini vivono nella sublime verità, ma non conoscono la verità».
Tra gli ascoltatori si trovava Nakazawa Dōni: udendo queste parole del maestro
Tōrei, ottenne all’improvviso l’illuminazione. Più tardi spiegò: «L’insegnamento
consiste nel non concentrare la mente sulle cose esterne». E aggiunse: «Ecco che
cosa significa raggiungere la buddhità nel nostro stesso corpo».
Il problema non è tanto l'avere freddo o meno.
La storia ci racconta che si era in inverno e che faceva tanto freddo. E allora?
La questione non risiede nel fatto che gli ascoltatori tremino. C'è freddo,
magari sei coperto poco e allora tremi. Cosa c'è di male? Nulla: anzi, il tutto
è del tutto naturale.
Solo che Tōrei capisce che c'è chi, tra i monaci
che lo ascoltano, 'teme' il freddo. Se temi, sei ostruito, sei succube, sei
ostaggio di questo o di quello, di una situazione o di un'altra, eventualmente
anche di un clima. Lo stato di timore, chiude, minaccia la condizione di
disponibilità, di apertura. E infatti Tōrei dice: è impossibile che voi
impariate lo zen se siete in preda al timore nei confronti del freddo. È come
nella storiella di quello che va a un concerto e si rovina tutto l'ascolto
dubitando di non aver chiuso a chiave l'auto! Soprattutto lo stato di timore è
indice spesso di una non-accettazione, di un non riconoscimento della realtà, di
una mancata aderenza ad essa. Quando è caldo, hai caldo; quando è freddo, hai
freddo: cosa c'è di strano in questo? per quale motivo esserne turbati? Se uno
scivola in una questione così banale...
Temere il freddo è la conseguenza di un certo uso della mente. Temere il freddo
è fermare la mente su un aspetto della realtà, bloccarla, crocifiggerla:
concentrarla. È del tutto naturale un coinvolgimento della mente nella realtà, è
vitale un interscambio tra mente e realtà; ma se concentri la mente, se la fissi
in qualche dimensione della multiforme e mutevole realtà, allora la opprimi, la
releghi a un vicolo cieco, le chiudi ogni via. Non la fai pascolare nello spazio
sconfinato della verità. Se suona il telefono, vado a rispondere: agisco in modo
confacente a uno stimolo esterno, alla realtà che mi si presentifica. Ma se non
suona nessun telefono e la mia mente è in attesa bramosa dello squillo, allora
la mia mente è fissata, è costretta e fuori da ogni disponibilità rispetto alla
realtà: sono lì in attesa, mi passi vicino e mi chiedi che ora è e io ti mando a
quel paese! Capito? Quindi la questione è essere a contatto con le cose esterne,
vederle, riconoscerle, rimanere in uno stato di quieta e benevolente apertura
verso di esse; se ci riesco, riesco anche ad essere libero; altrimenti ne
divengo ostaggio.
Concentrare la mente su questo o su quello denota anche un particolare approccio
alla realtà, che è quello di ricerca, di aspettativa, dualistico per eccellenza.
Concentro la mente su questa cosa, rifuggendo qualcos'altro; temo il freddo,
rincorrendo il caldo; ecc. Divido la realtà in ciò che mi piace e ciò che non
gradisco. Divento un servo della contingenza, invece che un liberato in essa. È
qui il senso della metafora dei pesci nell'acqua. Se ritenessi che sia
auspicabile 'conoscere la verità', la dovrei intendere come un oggetto, come
qualcosa da qualche parte, da scovare e di cui appropriarsi. Sarei come un pesce
in cerca di acqua. Un assurdo! Ma la questione non è cercare: piuttosto è
accorgersi, è vedere. Non è voltare la testa, ma aprire gli occhi. Le grandi
esperienze non provengono da un processo conoscitivo, ma partecipativo, unitivo,
disidentificativo, ecc.: l'amore, una bella poesia, la natura, un quadro, ... È
così che vivo la verità, è così che sono immerso in questo flusso indefinito,
senza inizio e senza termine, mutevole e amorevole, silenzioso e sinfonico.