Approccio meditativo
buddhista e approccio psicoterapeutico
L’approccio
meditativo classico e l’approccio psicoterapeutico differiscono
significativamente rispetto a SCOPI, AREE DI ESPERIENZA, e TECNICHE (Russell,1986).
Dato che queste differenze fra i due approcci si fondano su differenti concetti
di sofferenza, psicopatologia, salute mentale, coscienza, identità e
motivazione, lo scopo di questo capitolo sarà appunto quello di esaminarli nella
prospettiva di giungere ad un modello di integrazione tra l’approccio
psicoterapeutico e l’approccio meditativo.
2.1 Differenze tra l’approccio meditativo buddhista e l’approccio
psicoterapeutico
L’approccio meditativo classico e l’approccio psicoterapeutico differiscono
significativamente rispetto a SCOPI, AREE DI ESPERIENZA, e TECNICHE (Russell,1986).
Dato che queste differenze fra i due approcci si fondano su differenti concetti
di sofferenza, psicopatologia, salute mentale, coscienza, identità e
motivazione, lo scopo di questo capitolo sarà appunto quello di esaminarli nella
prospettiva di giungere ad un modello di integrazione tra l’approccio
psicoterapeutico e l’approccio meditativo.
2.1.1 Differenze di scopi
E’ sostenuto da molti autori che la meditazione non può essere intesa come una
psicoterapia nel senso occidentale del termine, cioè come un metodo per
alleviare la sofferenza psicopatologica (Russell, 1986). Questo può essere
illustrato nel caso della pratica buddhista. La dottrina fondamentale del
Buddhismo viene espressa nelle 4 Nobili Verità che rappresenta l’approccio
terapeutico alla sofferenza di Buddha, che afferma:
1) Che la SOFFERENZA (DUKKHA) esiste in tutti gli aspetti della vita;
2) Che la CAUSA DELLA SOFFERENZA è l’”ignoranza” (non conoscenza) che porta
all’identificazione con un’Io, all’attaccamento verso ciò che è piacevole e
all’avversione verso ciò che è spiacevole;
3) Che è possibile la CESSAZIONE DELLA SOFFERENZA che ha il suo culmine nel
NIRVANA;
4) Che la VIA CHE CONDUCE ALLA CESSAZIONE DELLA SOFFERENZA è l’OTTUPLICE
SENTIERO (retta visione, retto proposito, retto discorso, retta azione, retto
modo di vita, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione).
Ora, il concetto di DUKKHA non è equiparabile al concetto di “sofferenza
psicopatologica”, in quanto il DUKKHA include non solo stati acuti e manifesti
di sofferenza fisica e mentale, ma anche qualsiasi stato di disagio,
insoddisfazione, ansia e malessere (A. Solè-Leris, 1988),ciò che noi possiamo
definire come disagio psicologico. In altre parole, per DUKKHA si intende la
sofferenza esistenziale.
Nelle parole di Buddha:
<< La nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza;
tristezza, lamenti, dolore fisico e mentale, angoscia sono sofferenze; la
separazione da ciò che piace è sofferenza; non poter avere ciò che si desidera è
sofferenza >> .
Lo scopo meditativo della CESSAZIONE DELLA SOFFERENZA (3°Nobile Verità) non
passa attraverso l’esplorazione dell’inconscio quanto attingendo a stati
alterati di coscienza, il cui stato più alto viene definito NIRVANA nel
Buddhismo Theravada.
Entrare nello stato nirvanico è il
; le modificazioni comportamentali conseguenti sono la
. Con il raggiungimento della liberazione il meditante è un
, un essere illuminato (Goleman,1982). I tratti della personalità
dell’Arahant descritti nella letteratura dell’Abhidharma buddhista esprimono un
tipo ideale di persona (Goleman,1981). Il tipo ideale è libero dall’identità
socialmente condizionata, è privo di egocentrismo e non c’è più traccia di un Sè;
il passato come determinante il comportamento è stato cancellato, ed egli è
ormai libero dai condizionamenti delle vecchie abitudini; è privo di egoismo,
dei bisogni di approvazione, da ansietà e risentimenti; e le sue motivazioni
sono assolutamente pure: la benevolenza, la gioia altruistica, la compassione e
l’equanimità diventano le nuove forme motivanti; è aperto verso gli altri e
responsivo ai loro bisogni; possiede una percezione finissima nella meditazione
di consapevolezza: osserva con distacco i più minuziosi processi mentali (Goleman,1976,1982).
Goleman (1981) sostiene che questo modello radicale di persona è importante
nella psicologia occidentale per la sua assenza; é importante che venga
sostenuta questa possibilità realizzativa. Il modello di persona che si adatta
di più alle caratteristiche dell’Arahant è la persona “autorealizzante” di
Maslow. La persona autorealizzata ha una chiara percezione della realtà, mostra
spontaneità, compassione, distacco (nel senso di autonomia, non possessività,
non invadenza), indipendenza dalle lusinghe o dalle critiche (Goleman,1981).
Nelle tradizioni meditative l’ideale di salute mentale viene riconosciuto
proprio nell’Arahant e quindi nell’illuminazione o liberazione piuttosto che
soltanto nell’adattamento dell’Io, nel compromesso con i dati psicodinamici od
esistenziali, o nella congruenza tra Sè organismico (o Reale) e Sè ideale, meta
queste ultime delle psicoterapie(Walsh,1988).
Goleman (1972) dice che il Visuddhimagga buddhista afferma che negli stati
finali della meditazione l’Arahant: “...è assolutamente libero dalla
sofferenza”, tuttavia lo stato Arahant è estremamente difficile da ottenere (Goleman,1982).
Quindi suggerisce che per la persona ordinaria la meditazione potrebbe
promettere poco aiuto per risolvere i problemi emotivi.
Walsh (1988) ritiene che il focus delle psicologie buddhiste e induiste è sui
livelli esistenziali e transpersonali e, come Engler (1989), sostiene che esse
hanno poco da offrire per quanto riguarda la psicopatologia grave e che tendono
a considerarla semplicemente come un’esacerbazione della “psicopatologia della
vita quotidiana”. Piuttosto il loro focus è molto più sulla “patologia normale”,
ed essi tendono a concordare con Maslow (1971) che:
<< ciò che noi chiamiamo normale in psicologia è in realtà una psicopatologia
della media così ampiamente diffusa che noi non la notiamo neppure >> .
Solitamente si dice che l’origine di questa patologia (2° Nobile Verità) include
l’ “ignoranza” (attaccamento, avversione). L’“ignoranza” quì si riferisce alla
incomprensione della psiche e della sua vera natura. Se vengono fraintese la
propria mente e la sua vera natura allora il concetto del proprio Sè deve essere
necessariamente errato e da ciò si dice derivino le convinzioni costruite
mentalmente e i comportamenti che inducono la patologia (cioè l’attaccamento e
l’avversione). La mente governata dall’attaccamento e dall’avversione è schiava
di ogni situazione e dell’ambiente ed è costantemente coinvolta in una ricerca
senza fine per ottenere ciò che desidera (il piacevole) ed evitare ciò che è
penoso (lo spiacevole). Da ciò ne deriva l’umana infelicità e patologia
esistenziale.
Perciò lo scopo della pratica meditativa è TRASCENDERE L’IO o detto in altro
modo l’espansione dell’Io a livelli transpersonali (Venturini,1993).
Per “transpersonale” si intende ciò che sta al di là della “persona”, nel senso
di personalità condizionata e individuale (Boggio Gilot).
In questo senso, se i problemi personali sono definiti nei termini degli scopi
dei sistemi meditativi, quali la trascendenza dell’Io, allora la meditazione
potrebbe essere efficace. Tuttavia per le sindromi psicologiche e i sintomi,
ordinariamente trattati dalle psicoterapie, la meditazione non sembra essere una
cura specifica (Russell,1986).
L’utilità clinica della meditazione deve essere vista più nei termini di
prervenire ad un modello psicologico generale di stati mentali positivi
piuttosto che come trattamento per specifici problemi psicologici (Goleman,1976).
In genere mentre le psicoterapie occidentali partono dagli stati pre-egoici per
finire all’Io, le tradizioni meditative partono dall’Io per giungere al suo
trascendimento.
Ciò significa che tra psicoterapia e meditazione può essere vista una
complementarietà, almeno nel senso che si occupano in prevalenza di due stadi
diversi dello sviluppo della coscienza: l’uno che porta all’Io, l’altro che
porta al di là dell’Io (Wilber,1986); l’uno che porta sollievo prevalentemente
dalla sofferenza psicopatologica, l’altro prevalentemente dalla sofferenza
normale.
Anche Welwood esprime lo stesso punto di vista di Wilber affermando che lo scopo
della psicoterapia è l’auto-integrazione, mentre lo scopo della meditazione è
l’auto-trascendenza (Welwood,1980). Ciò presuppone che chi intraprende un
cammino meditativo deve essere una persona piuttosto ben integrata
psicologicamente. Infatti, la meditazione può persino aggravare alcune
psicopatologie (Engler,1989; Epstein,1996; Lieff,1989; Lazarus,1976; Walsh,1979).
Walsh ha colto che anche le tradizioni meditative asiatiche tendono a vedere le
motivazioni come gerarchicamente organizzate in maniera analoga ai modelli
suggeriti da Maslow e Wilber. Quando i bisogni di base vengono appagati allora
ne emergono altri di ordine più elevato come elementi motivanti, per giungere
alle spinte all’autoattualizzazione e alle spinte verso l’autotrascendenza. L’autotrascendenza
stando al di là persino dell’autoattualizzazione era la motivazione più alta
riconosciuta da Maslow ma alcune psicologie asiatiche sostengono che una
motivazione umana di ordine ancora superiore potrebbe essere il servizio
altruistico. Nelle teorie motivazionali occidentali, Freud ha considerato tutte
le motivazioni di ordine superiore come una sorta di distorsioni e perciò
riconducibili alla libido, al contrario Rogers ha riconosciuto come unica spinta
fondamentale nell’uomo la “tendenza attualizzante” avvicinandosi alle teorie
motivazionali elevazioniste orientali (Walsh,1988).
2.1.2 Differenze esperienziali
La psicoterapia e la meditazione possono considerarsi, per alcuni aspetti, come
interessati a dimensioni diverse della coscienza.
Bisogna fare la distinzione tra coscienza e contenuto della coscienza. Il
contenuto della coscienza è costituito da ricordi, immagini, sentimenti,
emozioni . Noi ne siamo consapevoli. I contenuti che non fanno parte della
coscienza sono i contenuti inconsci.
Le tradizioni meditative riconoscono un ampio spettro di stati di coscienza e
forniscono delle descrizioni dettagliate della fenomenologia, degli effetti
sulla personalità (Walsh,1988).
La coscienza la possiamo vedere come ordinata in una gerarchia di stati di
coscienza, nella quale il più alto stato e il più inclusivo è uno stato di
“coscienza puro”. Uno stato di coscienza puro senza contenuto. Sebbene possano
esserci anche livelli all’interno della “coscienza pura”, nessuno di questi
contiene contenuto (Goleman,1977).
Le psicoterapie occidentali tentano di portare il materiale inconscio nella
coscienza dove tale materiale viene esplorato, analizzato, interpretato o
espresso. Quando tali metodi hanno successo quel materiale diventa parte del
preconscio.
Walsh (1988) scrive che la rivendicazione delle tradizioni meditative è che il
nostro stato di coscienza ordinario è uno stato subottimale, che viene descritto
come simile ad uno stato ipnotico o di sogno se confrontato con la “coscienza
pura” che viene considerata come lo stato ottimale.
Il risultato del nostro stato di coscienza ordinario discreto è una percezione
della realtà filtrata e condizionata dalle nostre strutture mentali (Tart,1975),
una distorsione illusoria e non riconosciuta della percezione dell’esperienza
chiamata in Oriente “Maya”, che si dice rimanga non riconosciuta fino a quando
noi non sottoponiamo i nostri processi percettivi e cognitivi ad una attenta
osservazione introspettiva per mezzo della meditazione.
La persona che riesce a sradicare questa costruzione mentale illusoria si dice
che ha conseguito il “risveglio”. Questo “risveglio” conosciuto nelle varie
tradizioni meditative come illuminazione, liberazione, nirvana, satori, moksha è
lo scopo delle discipline meditative.
Walsh ritiene che c’è un accordo generale tra la ricerca occidentale e le
osservazioni orientali sul fatto che non riconosciamo molti dei nostri processi
cognitivi normali, tuttavia la teoria orientale va oltre e asserisce che questo
stato di “ignoranza” ci influenza tutti in maniera più penetrante, più sottile e
deleteria di quanto non venga solitamente riconosciuto dalla psicologia
occidentale e quindi è raccomandata la meditazione come terapia per curare tale
condizione.
In linea con le affermazioni delle tradizioni meditative sulla natura distorta
del nostro stato di coscienza ordinario discreto, anche il nostro senso normale
di identità è distorto. Inoltre esse affermano che questa rivendicazione
potrebbe essere direttamente provata da qualsiasi persona disposta ad esaminare
minuziosamente i propri processi mentali attraverso la pratica meditativa.
Attraverso questo esame microscopico, ciò che era precedentemente ritenuto
essere un senso del Sè relativamente coerente e permanente (Sè, costrutto del Sè,
rappresentazione del Sé) viene visto avente una natura composita e in continuo
flusso, un continuo flusso di pensieri, immagini ed emozioni. Quindi la natura
del Sè (come di tutte le cose) è quella di essere insostanziale (anatta) e
impermanente (anicca). Il senso normale del Sè come continuo, permanente nel
corso del tempo è stato descritto come una costruzione illusoria frutto di una
consapevolezza debole ed imprecisa.
La teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali ha sviluppato una concezione
del Sè o delle rappresentazioni del Sè che si sovrappone alla descrizione
buddhista (Engler,1989). Per entrambi i sistemi:
<< ciò che noi consideriamo essere il nostro Sè e sentiamo come presente e reale
è invece un’immagine interiorizzata, una rappresentazione composita costruita da
ricordi selettivi e fantasie di passati incontri col mondo. Infatti, il Sè viene
considerato come qualcosa che viene costruito in modo nuovo da un momento
all’altro. Ma entrambi i sistemi concordano nel dire che il Sè non viene
normalmente esperito in questo modo >> .
D’altra parte, anche l’Approccio comportamentale sembra essere vicinissimo al
concetto di “anatta” buddhista. Infatti, Arrobbio Agostini scrive:
<< ...l’io è considerato un postulato operativamente superfluo, non verificato
nell’esperienza. Ciò che l’esperienza ci evidenzia invece è un organismo
individuale che interagisce con l’ambiente tramite repertori comportamentali
strutturatisi nel tempo per effetto di apprendimenti.
L’Io, se così lo vogliamo chiamare, è definito dai comportamenti appresi
dall’individuo nel corso del suo processo esperienziale: al di fuori dei
comportamenti appresi, l’io è un
a cui non corrisponde alcuna realtà sostanziale. Si ha quindi,
nell’impostazione comportamentale, un rifiuto del significato ontico del
concetto di io, per cui l’io sarebbe dotato di una propria esistenza
indipendente, a favore di un significato logico: l’Io è un insieme di
comportamenti interdipendenti ed empiricamente osservabili >> .
Da quanto detto è già evidente l’assonanza con il Buddhismo. Se l’individuo è
definito dai suoi comportamenti (motori, cognitivi, emozionali, sociali) questo
è tutto quanto è necessario dire dell’individuo.
Perciò l’Io è un costrutto superfluo ed astratto di nessuna utilità in
psicologia. Come nel Comportamentismo, nel Buddhismo non esiste il concetto di
Io. Nella psicologia buddhista, l’essere umano non è altro che un insieme
psicofisico di 5 AGGREGATI (forma materiale, sensazioni, percezioni, formazioni
mentali, coscienza) che lavorano in interdipendenza reciproca, per cui ciò che
chiamiamo “essere” o “Io” è solo una combinazione di forze o energie mentali e
fisiche che cambiano continuamenti. Non c’è nulla dietro ai 5 aggregati che
possa chiamarsi “Io”. In termini di psicologia comportamentale, non c’è nulla
dietro ai comportamenti che possa chiamarsi “Io”: ciò che chiamiamo “Io” è
soltanto l’insieme psicofisico di repertori comportamentali interdipendenti.
Dunque, per ambedue i sistemi l’Io è un costrutto mentale o in termini buddhisti,
.
Una implicazione di quanto detto è che liberarsi dall’Io significa non tanto
trascendere, superare l’Io, ma innanzi tutto liberarsi dall’idea che un Io
esista: abbandonare cioè un particolare modulo cognitivo di rapporto con la
propria realtà.
Nel processo meditativo il senso dell’Io viene sperimentato come sempre più
inconsistente (anatta) e impermanente (anicca) e alla fine come qualcosa che
include un senso di identità con tutte le persone. Mentre continua questo
processo si dice che la consapevolezza si identifica sempre meno con una cosa il
particolare in maniera stabile ed esclusiva, così le dicotomie Io/non-Io,
me/non-me diventano sempre più fluide ma, come discuteremo più avanti, ciò è
molto diverso dagli stati di fusione psicotica o di regressione ad una unione
col seno materno o a stati intrauterini. Si dice invece che l’espressione
naturale di questo stato siano l’amore e la compassione.
Nell’unione mistica la dicotomia soggetto-oggetto viene trascesa mentre si
rimane perfettamente consapevoli di questa dicotomia convenzionale.
Le tradizioni meditative andando al di là delle rivendicazioni psicodinamiche ed
esistenziali, sostengono che la sofferenza e le spaccature interiori possono
venire trascese, spostandoci verso stati di coscienza modificati in cui una
persona non si identifica più esclusivamente con ciò di cui soffre, in altre
parole col senso dell’Io (Walsh,1988).
2.1.3 Differenze di tecnica
Una differenza può essere rintracciata nel fatto che le tecniche meditative non
sono create per portare il materiale fuori dall’inconscio.
Una utile distinzione usata in psicoterapia è quella tra metodi di copertura (covering)
e metodi di apertura (uncovering) (Blanck e Blanck, 1974).
Nei metodi di copertura della psicoterapia il materiale inconscio che crea i
problemi minacciando di emergere viene soppresso. Questi metodi sono spesso
utili nella terapia breve, nell’affrontare le crisi, nel controllare le emozioni
inconsce.
Per contrasto, le tecniche di apertura vengono designate per portare il
materiale inconscio nella coscienza dove esso può essere esplorato, analizzato
ed espresso.
Nella psicoterapia gestaltica una persona esamina come egli “interrompe se
stesso”(Perls,1973) e cercando di diventare sempre più consapevole dei propri
vissuti porta il materiale inconscio nella consapevolezza. Questo materiale
inconscio può venire attivamente trattato con le metodologie analitiche
classiche (associazioni libere, interpretazione, analisi del transfert) e/o con
le metodologie della nuova terapia quali ad es. il Focusing, il Role Playing,
ecc...
Per contrasto, le tecniche meditative non sembrano cercare attivamente il
materiale inconscio. Essi considerano che l’emergere di questo materiale sia un
ostacolo alla meditazione e non deve essere analizzato intellettualmente. Quindi
o allontanano l’attenzione del meditante da tale materiale oppure permettono di
continuare a concentrarsi con l’ipotesi che tale materiale possa essere
disperso.
Le tecniche meditative di concentrazione sembrano essere tecniche di copertura (covering)
(Engler,1989; Goleman,1982). Nella meditazione di concentrazione il tentativo è
di concentrare l’attenzione su un punto (ad es., un oggetto, un immagine, un
suono, un pensiero, un mantra) mentre vengono esclusi tutti gli altri stimoli (Goleman,1982).
Questo è naturalmente, una disattenzione selettiva, una base per la soppressione
o persino per la repressione. Questo sarebbe in armonia con lo scopo di
eliminare gli ostacoli al raggiungimento degli stati alterati di coscienza e
considerare la manifestazione del materiale inconscio nella consapevolezza come
uno degli ostacoli maggiori al raggiungimento degli stati più profondi della
meditazione.
Ma la meditazione vipassana (o di presenza mentale) possiamo intenderla come una
tecnica di apertura. E’ stata descritta come una tecnica di “apertura”(Tart,1977)
o di “svelamento” (Engler, 1989) dato che usando la presenza mentale uno osserva
qualcosa che entra nella consapevolezza senza tentare di eliminarlo. Il
risultato è che il materiale inconscio compare (Brown 1989; Engler 1989; Shapiro,1980;
Walsh,1979; Welwood,1991; Miller,1993). Cioè la meditazione di presenza mentale
fa da specchio, e quindi è molto verosimile che se una persona con delle
difficoltà squisitamente psicologiche inizia a meditare ciò che gli mostrerà più
chiaramente la meditazione sarà la sua difficile situazione psicologica e il
bisogno di porre rimedio a questa situazione (Bergonzi,1996).
Dovrebbe essere anche osservato che fino ad un certo punto ciò compare anche nei
metodi di concentrazione (Bogart,1991;Miller,1993).
C’è tuttavia una grande differenza nel modo in cui questo materiale viene
trattato dal metodo di presenza mentale e dalla psicoterapia. Nelle
psicoterapie, l’essenza del metodo è di tirar fuori attivamente e poi esplorare
ed esprimere questo materiale. Ma nella meditazione inclusa quella di presenza
mentale il materiale inconscio emergente è una distrazione, una contaminazione
(“nivarana”). Questo materiale inconscio emergente viene disperso e non viene
analizzato (Russell,1986).
Nella meditazione di presenza mentale il meditante osserva semplicemente il
materiale emergente, le emozioni e le immagini senza rimanerne attaccato, e alla
fine tale materiale scompare. I sentimenti e le emozioni che compaiono durante
la pratica meditativa non vengono considerati come aventi nessuna importanza,
come essi l’hanno nella psicoterapia. Questa mancanza di attenzione speciale
sembra permettere una qualche liberazione di materiale inconscio forte, ma tale
materiale potrebbe non riuscire a portare fuori altro materiale. Allora la
meditazione può fare emergere dei problemi (Engler,1989; Walsh,1984; Carringhton,1980,
Miller,1993; Russell,1986) e può aiutare a risolverne alcuni.
Ciò accade, ma deve essere considerato un epifenomeno, un fenomeno secondario
che non sempre si mostra. Perciò, c’è un problema riguardante l’efficacia di
questo procedimento come psicoterapia (Bergonzi,1996).
Naturalmente, prestando attenzione a questo materiale emergente potrebbe agire a
danno del progresso nella meditazione (Engler,1989; Brown,1989).
In sintesi, possiamo sostenere che i maggiori sistemi meditativi non prestano
molta attenzione alle psicodinamiche inconsce e il materiale inconscio emergente
è una “contaminazione” che è soltanto un ostacolo al progresso nella
meditazione.
Questi sistemi orientali non studiano il contenuto inconscio di per sè, nè usano
le tecniche per tale fine, ma hanno un grosso potere di autoesplorazione. Ciò ha
portato a considerare la meditazione, dal punto di vista delle psicoterapie
occidentali, come una tecnica di autoesplorazione. Ma nel contesto originario la
meditazione è primariamente una tecnica di autotrascendenza o autoliberazione.
La meditazione può essere combinata con la psicoterapia per studiare il mondo
interno, gli stati inconsci e gli stati più alti di coscienza, così come la
coscienza ordinaria giornaliera, oppure può essere utilizzata in parallelo con
la psicoterapia. Così non sembra esserci una completa opposizione tra la
meditazione e la psicoterapia. Piuttosto, esse sembrano trattare due aspetti
separati e distinti ma correlati della psiche umana.
Il materiale inconscio potrebbe essere portato nella coscienza dalla meditazione
e infatti la meditazione profonda (specialmente quella intensiva) sembra
aumentare l’apertura alla manifestazione di tale materiale. La meditazione
quanto meno potrebbe sensibilizzare la persona al suo mondo interno.
Sembra particolarmente utile la concettualizzazione della meditazione come una
“META-TERAPIA” :
<< Una procedura che porta a termine gli scopi maggiori delle terapie
convenzionali e tuttavia ha come suo stato finale un cambiamento che va al di là
dello scopo delle terapie e dei terapeuti, e della maggior parte dei teorici
della personalità, uno stato alterato di coscienza >> .
Kokoszka pone un limite alla integrazione della meditazione nella psicoterapia e
scrive circa gli scopi della meditazione e della psicoterapia:
<< Lo scopo della psicoterapia è di ristabilire la salute, lo scopo della
meditazione è l’autosviluppo attraverso uno specifico modo di vivere >> .
Ciò porta al problema dei valori del paziente in psicoterapia per cui la
meditazione in psicoterapia non suscita nessun problema se usata come tecnica di
rilassamento, ma assunta nel senso di autosviluppo attraverso uno specifico modo
di vivere è una questione di scelta del paziente (Kokoszka,1986).
L’aggiunta delle tecniche meditative alla psicoterapia non è una sfida alla
psicoterapia nè comporta una riduzione della funzione dei terapeuti ma al
contrario questa integrazione riconosce un ruolo alla psicoterapia e agli
psicoterapeuti più esteso e più pieno.
Da: http://www.bioenergetic.it/modules.php?name=News&file=article&sid=18