"(Un giorno) un monaco domandò a Mazi: «Che cosa si dovrebbe fare per essere in
armonia con il Tao?».
Mazi rispose: «Già non sono in armonia con il Tao»".
Cosa significa questo dialogo?
La domanda del monaco è impertinente. La questione dell'essere o meno in armonia
con il Tao pone sulla strada del concetto, dell'idea, cioè della
problematizzazione. Come essere sulla via del tao? ci sono? non ci sono? c'è una
particolare tecnica? un percorso? cosa è il tao? come mi pongo nei suoi
confronti? come viverlo? Questo tipo di questionare fa sì che si crei una
frattura e si filosofi su questo dualismo che ne scaturisce: tra un sé
soggettivo e un Tao oggettivo.
L'idea stessa di essere in armonia con il Tao, a ben vedere, è di impedimento al
sentire la verità della questione. Lo è già in quanto idea: produce cioè
sottilmente l'impressione che la verità sia appunto questa idea, come già detto:
un concetto, una teoria. Un'idea allora che diventa un filtro: filtro tra l'io e
la verità stessa, che non è altro - semplicemente - che l'adesione all'attimo
presente. Una adesione così radicale, così potente, così ampia, così totale che
brucia tutto, assorbe ogni altra cosa. Un'adesione in cui non c'è più colui che
aderisce e ciò a cui si aderisce (sarebbe ancora infatti un ricadere nel
dualismo tra io e altro da me). Un'adesione che è un puro aderire, senza
soggetto e oggetto.
In altro modo, si cade nuovamente nell'incubo dell'ideale. Cioè: se penso di
dover aderire a un tao oggettivo cui adeguarmi, che differenza vi sarebbe tra
questo approccio e quello del cercare di divenire altro da ciò che sono?
Divenire buono, perfetto, virtuoso, sapiente, un buddha... Tutte forme di
empietà di me stesso, del mio essere ciò che è. È ciò che è. È sempre ciò che è.
Ogni atto, ogni gesto, ogni parola, ogni errore, ogni nefandezza, ogni sublime
altezza, ogni degradante bassezza... È ciò che è. Tutto naviga, danza, si muove,
nasce, vive, muore nel Tao. Appena lo cerchi al di là del ciò che è, bestemmi la
verità che è adesione all'attimo presente. E cadi nell'inferno del pensiero, del
fare, del volere, dello sforzo.
Un altro brano tratto dai detti di Mazi:
"Un monaco domandò al maestro: «Come si pratica il Tao?».
Il maestro rispose: «Il Tao è al di là della pratica. Se è praticato e
realizzato, alla fine deperisce [...]. Se non è praticato, questa è la via di
coloro che amano i piaceri della vita».
Il monaco domandò: «Qual sorta di interpretazione può giungere al Tao?».
Il maestro rispose: «L'autonatura, o natura essenziale, è fondamentalmente
completa in noi. Se non siamo impediti da (dualità, per esempio) male e bene,
siamo praticanti del Tao. Se ci aggrappiamo a ciò che è bene e rigettiamo ciò
che è male o meditiamo sul vuoto per entrare nello stato di dhyāna (assorbimento
meditativo), tutto ciò è creatività (che ostruisce l'autonatura)»".
Anche qui ritorna ciò che abbiamo appena detto. Praticare il
tao è praticare il darsi naturale della realtà, l'essere allineati ad essa,
senza alcun retropensiero, contrasto, obiezione. Appena invece faccio
differenze, voglio questo, nego quello, mi voglio isolare, voglio raggiungere il
vuoto rispetto al ciò che è, voglio vivere un qualche particolare stato
interiore di estasi, di mistica quiete, ecc, allora esco dal reale: produco,
faccio, sono creativo... Nel senso che nascondo a me stesso quello che dentro
naturalmente e liberamente si dispiega come autonatura, ciò che è già, prima,
sempre, a fondamento di tutto e al di là.