Continuiamo a leggere alcuni brani dal testo di Barry Magid, Guida zen per non
cercare la felicità:
"Un giovane monaco ansioso chiese una volta a Kodo Sawaki
Roshi, un maestro zen giapponese del ventesimo secolo, se la pratica zen poteva
renderlo fiducioso e impavido come il suo insegnante. Sawaki ribatté:
«Assolutamente no! Lo zen non serve a niente!». Quel 'non serve a niente' trae
la sua base dal comprendere che fondamentalmente non c'è nulla da ottenere e
nulla da aggiustare. [...] Solo quando comprendiamo che 'non c'è niente da
guadagnare', siamo in grado di venerare ogni cosa, ogni persona, ogni momento
come fine in se stesso, non come un mezzo in funzione di un qualche scopo
personale. Questa 'inutilità', questo 'non servire a niente', contrappone la
vera pratica alle nostre varie 'pratiche segrete' che di nascosto cercano sempre
di assimilare la meditazione a questo o a quel progetto egocentrico. Con uno zen
in cui 'non c'è niente da guadagnare' usciamo dal nostro consueto ambito di
domande e risposte, problemi e soluzioni, lontano dal girotondo senza fine dell'automiglioramento,
per sperimentare invece la completezza della nostra vita così com'è già.
[...] In questo nostro tempo consacrato al self-help e all'automiglioramento,
l''inutilità' della meditazione [...] è molto difficile da cogliere. Lo zazen
non è una tecnica, non è un mezzo rivolto a un fine, non è un mezzo per
diventare più calmi, più fiduciosi, tanto meno 'illuminati'. Si può anzi dire
che tutta la nostra pratica consiste nel mettere fine all'automiglioramento,
mettere fine alla nostra consueta ricerca compulsiva della felicità, o del suo
equivalente zen, la ricerca dell'illuminazione. Non che non si possa essere
felici (o illuminati), è solo che ci arriviamo seguendo un percorso molto
diverso da quello che avevamo immaginato e che può non assomigliare affatto a
quel che ci aspettavamo quando abbiamo incominciato.
[...]
Quando cerchiamo di afferrare un'essenza, o di affermare la priorità di un
aspetto dell'esperienza di sé rispetto a un altro, ci ritroviamo impigliati in
un ginepraio filosofico provvisto di spine emotive molto reali. Wittgenstein
afferma ripetutamente che compito della filosofia non è rispondere a domande
come queste, bensì dissolverle, per mostrare che non sono altro che
pseudo-problemi sollevati da particolari aspetti del linguaggio. [...] Come
avviene quando si 'risolve' un koan, non è che abbiamo una risposta;
piuttosto, tutto il contesto in cui abbiamo posto la domanda si è dissolto.
Allora, come possiamo imparare a non farci fuorviare dai problemi - o non
saranno pseudoproblemi? - della vita? Per questo ci vuole letteralmente il
lavoro di tutta un'esistenza, tutta un'esistenza di pratica. [...] Qualunque
forma prenda, la pratica è un richiamo a fare attenzione a ciò che pensiamo di
essere, al tipo di domande che poniamo, alla forma che ci aspettiamo assuma una
risposta e a quali sono le nostre fantasie di guarigione riguardo a quanto
accadrà una volta trovata la risposta" (pp. 31-37).