Abbiamo letto un paio di brani tratti da Il giglio nel campo e l'uccello nel
cielo di Soren Kierkegaard:
"Potessi essere un uccello, potessi essere come un uccello,
libero da ogni riguardo come il piccolo uccello canoro che canta con umiltà,
malgrado nessuno lo ascolti [...]! Oh, potessi essere un fiore, potessi essere
come un fiore nel prato, felicemente innamorato di se stesso, e nient'altro
[...]!
Si giunge all'inizio in un certo senso a ritroso. [...] L'inizio è quest'arte di
diventare silenziosi [...]. Questo silenzio lo puoi imparare dal giglio e
dall'uccello. [...]
Saper tacere, questo lo puoi imparare là fuori dal giglio e dall'uccello, dove
c'è il silenzio, e c'è anche un che di divino in questo silenzio. Là c'è
silenzio; e non solo quando tutto tace nella notte silenziosa, ma anche quando
durante il giorno le mille corde sono in movimento e tutto è come un mare di
suoni c'è silenzio: ciascuno lo pratica così bene che nessuno di loro e neanche
tutti insieme creano rotture nella solennità del silenzio. Là c'è silenzio. La
foresta è silenziosa; anche quando sussurra è silenziosa. [...] Il mare è
silenzioso; anche quando infuria assordante è silenzioso. Al primo istante forse
ascolti male e lo senti rumoroso. Se cammini frettoloso con quest'idea, fai un
torto al mare. Ma se invece ti dai tempo e presti ascolto con più attenzione, tu
senti - meraviglia! - il silenzio, perché la monotonia è anche silenzio. Quando
di sera il silenzio pervade il paesaggio e senti il lontano muggire dal pascolo
o, in lontananza, senti dalla casa del contadino la voce familiare del cane, non
si può dire che il muggire o la voce turbino il silenzio, no, fanno parte del
silenzio, sono in misterioso e pertanto ancora tacito accordo con il silenzio,
lo accrescono. [...]
L'uccello tace e attende; [...] crede fermamente che tutto avverrà a suo tempo,
perciò l'uccello attende. Ma sa pure che non gli spetta sapere il giorno e
l'ora, perciò tace. Avverrà a tempo opportuno, dice l'uccello, anzi no, non dice
così l'uccello, tace. [...] Non chiede impaziente «quando arriva la primavera?»
[...]; non dice «quand'è che avremo la pioggia?», o «quand'è che avremo il
sole?», o «ora abbiamo avuto troppa pioggia», o «il caldo è stato troppo forte»;
non chiede come sarà l'estate quest'anno, se lunga o corta: no, lui tace e
attende. È così semplice lui, eppure non è mai stato ingannato, cosa che può
succedere solo all'intelligenza, non alla semplicità [...]. Sarebbe forse
possibile cogliere «l'istante», se si parla? No, solo tacendo si coglie
l'istante [...].
Un uomo [...] non sa tacere e attendere: forse così si può spiegare perché
l'istante non arrivi per lui. Non sa tacere: forse così si può spiegare perché
non abbia notato quando l'istante arrivò per lui. [...] E di certo l'infelicità
nella vita della stragrande maggioranza degli uomini dipende dal fatto che non
hanno mai percepito «l'istante», che nella loro vita l'eterno e il temporale
sono sempre stati separati. E perché? Perché non hanno saputo tacere" (pp.
33-40).
Abitare l'istante quindi come pratica di semplicità, rispetto
al mio domandare, al mio confrontare ciò che voglio con ciò che c'è. La domanda
non ha raggiunto la sua risposta, ma finalmente si è autoliberata, si è svuotata
del suo senso.
E abitare l'istante come incarnazione dell'eterno nel temporale. Perché fuori
dall'istante sei nella storia, nel progetto, nella ricerca di un significato da
costruire, da scoprire, da inventare. Mentre nell'istante non c'è più niente
tranne la sua verità e il tuo crollo rispetto a tutto il resto, che diventa vana
illusione. L'istante rivela la sua infinità, rivela il suo mistero più alto:
l'essere il luogo dell'eternità.