Dal Sutra di Hui Neng - 5
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Dal Sutra di Hui Neng - 5


Un altro brano tratto dal sutra del Sesto patriarca Hui Neng:

"Il Bhikkhu Chih Ch'ang [...] un giorno andò a rendere omaggio al Patriarca, che gli chiese da dove e perché era venuto.
«Sono stato recentemente sulla Montagna del Dirupo Bianco», rispose, «per parlare con il Maestro Ta T'ung [...]. Ma poiché ho ancora dei dubbi, ho viaggiato lontano per rendervi omaggio. Signore, vi prego di chiarirmeli».
«Quali insegnamenti ti ha dato?», chiese il Patriarca.
«[...] Una notte andai da solo nella sua stanza e gli chiesi quale fosse la mia Essenza della Mente. 'Vedi il vuoto illimitato?', mi chiese. 'Sì', risposi. Poi mi chiese se il vuoto aveva una forma particolare, e quando gli dissi che il vuoto è senza forma e che quindi non può avere una forma particolare, disse: 'La tua Essenza della Mente è come il vuoto. Realizzare che nulla è conoscibile è la vera conoscenza. Realizzare che non è gialla né verde, né lunga né corta, che è pura per natura, e che la sua quintessenza è perfetta e limpida, vuol dire realizzare l'Essenza della Mente e quindi raggiungere la Buddhità, che è anche detta conoscenza del Buddha'. Poiché non capisco del tutto il suo insegnamento, vi prego di illuminarmi, signore».
«Il suo insegnamento», disse il Patriarca, «indica che egli conserva ancora i concetti arbitrari delle idee e della conoscenza, e questo spiega perché non è riuscito a rendertelo chiaro".

Il problema del Maestro Ta T'ung è che è ancora intrappolato nel reticolato del filosofare. La sua, ovviamente, è una filosofia zen, lo si capisce, ma si destreggia comunque con il solito armamentario intellettualistico di concetti, idee, definizioni, parole: quindi, per questo, niente affatto zen!
In un certo senso può essere nel giusto dicendo che "Realizzare che nulla è conoscibile è la vera conoscenza", ma insiste troppo su questo che diventa un concetto della sua lezioncina. Trasforma in teoria una cosa molto pratica, una cosa che non è una cosa e che va realizzata, non pensata, non insegnata, non indicata. Magari accennata, attraverso mezze parole, un non detto, un gesto, uno sguardo di sfuggita, ...
Chiede al monaco Chih Ch'ang se conosce il vuoto illimitato, fa domande metafisiche intorno ad esso, lo paragona all'Essenza della Mente e comincia a indicarla attraverso una sbrodolata zen, che può avere anche un senso, ma risulta spudoratamente - nel contesto in cui viene presentata - troppo mentale, chiaramente artificiosa, in sostanza manualistica.

Continua il patriarca: "Ascolta la mia strofa:

Capire che nulla può essere visto ma conservare il concetto di 'invisibilità'
È come la superficie del sole oscurato da nuvole di passaggio.
Capire che nulla può essere conosciuto ma conservare il concetto di 'inconoscibilità'
Può essere paragonato a un cielo limpido sfigurato da un lampo di luce.
Lasciare che questi concetti sorgano spontaneamente nella tua mente
Indica che hai identificato male l'Essenza della Mente, e che non hai ancora trovato i mezzi abili per realizzarla.
Se capisci per un attimo che questi concetti arbitrari sono sbagliati,
La tua luce spirituale splenderà per sempre»".

Cioè: il patriarca svela la mancanza di Ta T'ung. Al fondo della realizzazione che propone c'è il concetto. Ha realizzato che nulla può essere visto e allora ci ha costruito una filosofia basata sul concetto di invisibilità; ha realizzato che nulla può essere conosciuto e ha messo alla base della sua teoria il concetto di inconoscibilità. L'Essenza della Mente invece è libera nel suo non-essere, nella sua non-determinatezza, nella sua non-entità; quindi - certo - invisibile, inconoscibile, ma per sua natura, per sua spontaneità. E mantiene la sua 'talità' proprio perché non invischiata con concetti quali invisibilità o inconoscibilità. Appena reifichi lo stato naturale della mente, sei fregato! L'indagine inquina l'indagato, la domanda modifica l'oggetto in questione. Invece la libertà assoluta dell'Essenza della Mente è proprio il suo essere fuori da qualsiasi questione, il suo non essere oggetto. Appena la oggettivizzi, appena la cosalizzi, ne fai un prodotto, un ente, un affare tra gli altri, un concetto, un idolo magari. La problematizzi e allora diventa un problema.
Ma realizzarla, è soprattutto realizzare il suo non essere un qualcosa tra le cose, il suo non avere un statuto ontologico, per cui tu possa dire: "È questa cosa qui!". È veramente senza forma, ma appena questa 'idea' la pensi, l'Essenza della Mente ti sfugge. E fai filosofia.
Se invece la lasciassi a sé, senza neanche commentare tra te e te: "Ah, ecco l'Essenza della Mente" (che errore puerile sarebbe!), se fossi in un certo modo incosciente della sua presenza, eppur presente ad essa, allora...

"Dopo aver udito questo Chih Ch'ang sentì subito che la sua mente era illuminata. Quindi presentò la seguente strofa al Patriarca:

Permettere che i concetti di invisibilità e inconoscibilità sorgano nella mente
Vuol dire cercare la Bodhi senza liberarsi dai concetti dei fenomeni.
Chi è insuperbito dalla minima impressione, come 'Adesso sono illuminato',
Non è migliore di quando era sotto l'illusione" (dal cap. VII).

La superbia è il reificare la realizzazione: così si cade da essa. L'operazione dell'ego che si ripiega su se stesso è la continua produttrice dell'ego stesso: "io sono fatto così", "io sono fatto colà", "io sono illuminato" o "io sono non illuminato" è dare fuoco all'ego stesso, è metterlo al centro della questione, al fondo di tutto. Preoccuparsi dell'ego è insuperbire; chiedersi del suo stato o volerlo definire è metterlo su un piedistallo. Operare con l'ego e con i suoi intellettualismi (i concetti di invisibilità, inconoscibilità, ecc.) è foriero di una pratica tesa all'accaparramento, alla ricerca dualistica spasmodica, ad un virtuosismo di rincorsa, a un'idea illusoria della realizzazione - intesa cioè come qualcosa da 'cercare'.