Un altro brano tratto dal sutra del Sesto patriarca Hui Neng:
"Il Bhikkhu Chih Ch'ang [...] un giorno andò a rendere
omaggio al Patriarca, che gli chiese da dove e perché era venuto.
«Sono stato recentemente sulla Montagna del Dirupo Bianco», rispose, «per
parlare con il Maestro Ta T'ung [...]. Ma poiché ho ancora dei dubbi, ho
viaggiato lontano per rendervi omaggio. Signore, vi prego di chiarirmeli».
«Quali insegnamenti ti ha dato?», chiese il Patriarca.
«[...] Una notte andai da solo nella sua stanza e gli chiesi quale fosse la mia
Essenza della Mente. 'Vedi il vuoto illimitato?', mi chiese. 'Sì', risposi. Poi
mi chiese se il vuoto aveva una forma particolare, e quando gli dissi che il
vuoto è senza forma e che quindi non può avere una forma particolare, disse: 'La
tua Essenza della Mente è come il vuoto. Realizzare che nulla è conoscibile è la
vera conoscenza. Realizzare che non è gialla né verde, né lunga né corta, che è
pura per natura, e che la sua quintessenza è perfetta e limpida, vuol dire
realizzare l'Essenza della Mente e quindi raggiungere la Buddhità, che è anche
detta conoscenza del Buddha'. Poiché non capisco del tutto il suo insegnamento,
vi prego di illuminarmi, signore».
«Il suo insegnamento», disse il Patriarca, «indica che egli conserva ancora i
concetti arbitrari delle idee e della conoscenza, e questo spiega perché non è
riuscito a rendertelo chiaro".
Il problema del Maestro Ta T'ung è che è ancora intrappolato
nel reticolato del filosofare. La sua, ovviamente, è una filosofia zen, lo si
capisce, ma si destreggia comunque con il solito armamentario intellettualistico
di concetti, idee, definizioni, parole: quindi, per questo, niente affatto zen!
In un certo senso può essere nel giusto dicendo che "Realizzare che nulla è
conoscibile è la vera conoscenza", ma insiste troppo su questo che diventa un
concetto della sua lezioncina. Trasforma in teoria una cosa molto pratica, una
cosa che non è una cosa e che va realizzata, non pensata, non insegnata, non
indicata. Magari accennata, attraverso mezze parole, un non detto, un gesto, uno
sguardo di sfuggita, ...
Chiede al monaco Chih Ch'ang se conosce il vuoto illimitato, fa domande
metafisiche intorno ad esso, lo paragona all'Essenza della Mente e comincia a
indicarla attraverso una sbrodolata zen, che può avere anche un senso, ma
risulta spudoratamente - nel contesto in cui viene presentata - troppo mentale,
chiaramente artificiosa, in sostanza manualistica.
Continua il patriarca: "Ascolta la mia strofa:
Capire che nulla può essere visto ma conservare il concetto
di 'invisibilità'
È come la superficie del sole oscurato da nuvole di passaggio.
Capire che nulla può essere conosciuto ma conservare il concetto di
'inconoscibilità'
Può essere paragonato a un cielo limpido sfigurato da un lampo di luce.
Lasciare che questi concetti sorgano spontaneamente nella tua mente
Indica che hai identificato male l'Essenza della Mente, e che non hai ancora
trovato i mezzi abili per realizzarla.
Se capisci per un attimo che questi concetti arbitrari sono sbagliati,
La tua luce spirituale splenderà per sempre»".
Cioè: il patriarca svela la mancanza di Ta T'ung. Al fondo
della realizzazione che propone c'è il concetto. Ha realizzato che nulla può
essere visto e allora ci ha costruito una filosofia basata sul concetto di
invisibilità; ha realizzato che nulla può essere conosciuto e ha messo alla base
della sua teoria il concetto di inconoscibilità. L'Essenza della Mente invece è
libera nel suo non-essere, nella sua non-determinatezza, nella sua non-entità;
quindi - certo - invisibile, inconoscibile, ma per sua natura, per sua
spontaneità. E mantiene la sua 'talità' proprio perché non invischiata con
concetti quali invisibilità o inconoscibilità. Appena reifichi lo stato naturale
della mente, sei fregato! L'indagine inquina l'indagato, la domanda modifica
l'oggetto in questione. Invece la libertà assoluta dell'Essenza della Mente è
proprio il suo essere fuori da qualsiasi questione, il suo non essere oggetto.
Appena la oggettivizzi, appena la cosalizzi, ne fai un prodotto, un ente, un
affare tra gli altri, un concetto, un idolo magari. La problematizzi e allora
diventa un problema.
Ma realizzarla, è soprattutto realizzare il suo non essere un qualcosa tra le
cose, il suo non avere un statuto ontologico, per cui tu possa dire: "È questa
cosa qui!". È veramente senza forma, ma appena questa 'idea' la pensi, l'Essenza
della Mente ti sfugge. E fai filosofia.
Se invece la lasciassi a sé, senza neanche commentare tra te e te: "Ah, ecco
l'Essenza della Mente" (che errore puerile sarebbe!), se fossi in un certo modo
incosciente della sua presenza, eppur presente ad essa, allora...
"Dopo aver udito questo Chih Ch'ang sentì subito che la sua
mente era illuminata. Quindi presentò la seguente strofa al Patriarca:
Permettere che i concetti di invisibilità e inconoscibilità
sorgano nella mente
Vuol dire cercare la Bodhi senza liberarsi dai concetti dei fenomeni.
Chi è insuperbito dalla minima impressione, come 'Adesso sono illuminato',
Non è migliore di quando era sotto l'illusione" (dal cap. VII).
La superbia è il reificare la realizzazione: così si cade da essa.
L'operazione dell'ego che si ripiega su se stesso è la continua produttrice
dell'ego stesso: "io sono fatto così", "io sono fatto colà", "io sono
illuminato" o "io sono non illuminato" è dare fuoco all'ego stesso, è metterlo
al centro della questione, al fondo di tutto. Preoccuparsi dell'ego è
insuperbire; chiedersi del suo stato o volerlo definire è metterlo su un
piedistallo. Operare con l'ego e con i suoi intellettualismi (i concetti di
invisibilità, inconoscibilità, ecc.) è foriero di una pratica tesa
all'accaparramento, alla ricerca dualistica spasmodica, ad un virtuosismo di
rincorsa, a un'idea illusoria della realizzazione - intesa cioè come qualcosa da
'cercare'.