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"Il requisito per la resurrezione" (James Hillman) C'è un elemento nelle narrazioni della passione di Cristo e di ciò che disse che sembra mancare nel modo più assoluto e che ha sempre colpito tutti gli esegeti: la speranza. Anzi, egli urla, come sappiamo: Padre, perché mi hai abbandonato? È disperato. Ma disperazione qui ha un connotato fortemente, alchemicamente trasformativo. La speranza dice troppo, è una ideologizzazione della realtà, un filtrarla di mentale. Gesù stesso invitava a quel prendere ogni giorno la propria croce che è lo stare nudi nei nostri momenti di sofferenza senza cercarne di fare altro, senza volerli coprire di nostre considerazioni, desideri, auspici: da lì, da quella “disperazione” la loro alchimia. Perché non vi è più distanza tra me e il mio dolore: sono in pace con esso. Non in pace da esso, ma in pace con esso. E quando sono immerso nella mia realtà, pienamente immerso, qualcosa accade. Resuscito quando muoiono le mie fantasticherie che obiettano alla croce. James Hillman scrive:
“La trasformazione ha inizio […] quando non c'è più speranza. La disperazione produce quel grido di salvezza che la speranza sarebbe troppo ottimista, troppo sicura di sé per pronunciare. Non fu con voce di speranza che Gesù gridò: “Elì, Elì, lamà sabactàani?”. Il grido sulla croce è l'archetipo di ogni grido di aiuto. [...] Non è rimasto più nulla, nemmeno Dio. La mia unica certezza è la mia sofferenza, [...] Una consapevolezza animale della sofferenza, e la piena identificazione con essa diventano l'umiliante terreno della trasformazione. La disperazione fa entrare l'esperienza della morte ed è al tempo stesso il requisito per la resurrezione. La vita quale era prima, lo status qua ante, è morta quando è nata la disperazione. Esiste solo il momento così come è, il seme di ciò che verrà […]. Questa priorità dell'esperienza, questa lealtà all'anima […] possono far scaturire quella trasformazione che l'anima cercava”
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