"Non è in nostro potere risvegliare in noi stessi l'abbandono" (Martin Heidegger)
"Non è in nostro potere risvegliare in noi
stessi l'abbandono" (Martin Heidegger)
Continuiamo a leggere qualcosa da L'abbandono di Martin
Heidegger:
"Maestro: [...] Io voglio il Non-volere.
Scienziato: [...] Quest'espressione ci è risultata ambigua.
Erudito: Da un lato, infatti, Non-volere indica ancora un volere, ma un volere
in cui è all'opera un Non, che si determina addirittura nel senso di un Non, il
quale, a sua volta, si rivolge al volere stesso e lo revoca. Quindi Non-volere
significa: revocare volontariamente il volere. Dall'altro lato, l'espressione
Non-volere indica ancora ciò che resta completamente al di fuori da ogni forma
di volontà.
S: Quindi quest'ultimo senso di Non-volere non potrà mai essere attuato o
raggiunto attraverso un volere.
M: Ma forse potremo avvicinarci di più ad esso attraverso quella forma di volere
che abbiamo determinato come il primo senso di Non-volere.
[...]
S: [...] Lei vuole un Non-volere inteso nel senso di revoca del volere perché,
attraverso di esso, a noi sia possibile venir ricondotti [...] all'essenza del
pensare da noi cercata, che non è un volere. [...]
M: [...] Inabituale è perdere l'abitudine alla volontà.
E: Alla volontà, Lei dice [...].
S: e così manifesta un'esigenza stimolante in tutta tranquillità.
M: Se soltanto possedessi già l'appropriato abbandono, potrei senz'altro fare a
meno di perdere l'abitudine a volere.
[...]
M: [...] Non è in nostro potere risvegliare in noi stessi l'abbandono.
S: Altrove è dunque ciò che lo produce.
M: Non: lo produce, bensì: lo lascia essere.
E: [...] Presentisco vagamente che esso si risveglia quando il nostro essere è
disposto a lasciarsi ricondurre a ciò che non è un volere. [...] Forse in questo
lasciare, nell'abbandono, si cela un senso dell'agire ancora più elevato di
quello che attraversa tutte le azioni del mondo e l'agitarsi dell'umanità...
M: un agire ancora più elevato che però non è affatto un'attività.
E: Perché l'abbandono non rientra affatto nell'ambito della volontà.
S: Passare dalla volontà all'abbandono mi sembra la cosa più difficile" (pp.
47-49).
Sono cose molto vicine alla pratica della meditazione. Lo
scopo è lo svuotamento dell'attività (la volontà) di ricerca, di riuscita, ...;
è l'abbandono dello sforzo, dell'operatività dell'ego: è la sua fine. Scopo,
però, significa volontà. Si entra allora in quella contraddizione per cui questo
svuotamento è principiato dalla volontà stessa: voglio abdicare alla volontà. È
un errore, ovvio. Ed è una contraddizione, ma necessaria, che si deve lasciare
essere. Quel non-volere cui si giunge attraverso la volontà - e che non può
dirsi equivalente al reale abbandono - è comunque, in qualche modo, un
avvicinarsi al non-volere che è il puro lasciare essere. È un avvicinarsi nel
momento nel quale sente che solo la sua estrema dismessa può ricondurre alla
verità dell'essere, quell'essere sentito solo nel suo lasciarlo essere.
Dall'operare in modo tale da ottenere il non-volere si passa a quella
disposizione nel lasciarsi essere, nell'abbandonarsi a quell'essere ricondotti
al fondo del volere, che è un non-volere. Si è allora in quella vuotezza quieta
che è elevatezza rispetto a qualsiasi azione prodotta dal volere, che è quell'azione
non agente di cui tanto parla il taoismo.
Nella lezione del mercoledì abbiamo continuato a leggere I tre pilastri dello
zen di Philip Kapleau
(clicca
qui).