Per l'ultima volta leggiamo qualche brano da L'essenza dello zen
di Sekkei Harada:
"Per oltre dieci anni Gensha aveva praticato intensamente al
monastero. Tuttavia, sembrava che non riuscisse a compiere l'ultimo passo
necessario per portare a compimento la sua pratica, e così decise di andare da
qualche altra parte. Se ne andò dal monastero di nascosto, nel cuore della
notte. Poiché il sentiero che conduceva a valle era impervio, Gensha doveva
camminare con attenzione per evitare le rocce e i ceppi degli alberi.
Gensha era così concentrato nello scegliere il percorso migliore lungo il
sentiero di montagna che dimenticò totalmente se stesso. La sua unica
preoccupazione mentre camminava era di non inciampare e di non farsi male. Ciò
nonostante finì proprio per farsi male. Batté il piede contro una roccia e si
strappò un'unghia. Provò un dolore tremendo. «Ah!», gridò. Dapprima sorse il
pensiero: «Fa male», seguito subito dal pensiero: «Da dove viene questo dolore?
[...]».
In quel momento [...] Gensha riuscì a portare a compimento la pratica zen su cui
aveva lavorato per tanti anni. Corpo e mente erano stati abbandonati. Al sorgere
del pensiero conscio: «Da dove viene questo dolore?», dimenticò completamente l'io-sé.
[...]
È sufficiente che vi dedichiate semplicemente al lavoro con tutto il vostro
corpo e tutta la vostra mente. In quel modo, concentrandovi e dimenticando voi
stessi, siete già in samadhi. Questo è lo zen nel movimento. Se pensate
consciamente: «Questo è zen», oppure, «Devo essere una cosa sola con questo
lavoro», non è più zen nel movimento.
[...]
Ci sono alcuni che si sentono in pace solo quando praticano lo zazen. È una
condizione in cui non sono ancora liberi. C'è una corda invisibile che li lega"
(pp. 157-161).
C'è qui una pratica - quella di Gensha nel monastero - che è
necessaria, ma che deve fallire. Certamente qualsiasi pratica finalizzata-a,
desiderosa di accaparramenti, tendente a scopi (anche sublimi, quale è
considerato il samadhi) deve trovare come destinazione ultima il suo
tracollo.
Il tracollo deve venire, perché non c'è mai uno scopo che sia separato dalla
pura pratica, che non sia il semplice dispiegarsi della pratica nel qui e ora -
quel qui e ora che fa crollare ogni preoccupazione di raggiungimenti di
traguardi, che fa crollare il corpo-mente nel vuoto più completo, dove la realtà
riceve la sua ospitalità.
A volte te ne puoi accorgere solo se sei costretto da un fattore esterno, se c'è
qualcosa di vitale in ballo, se c'è il pericolo incombente. Oppure nel pieno del
dolore estremo: quel dolore che ha origine, senza avere principio. Ovunque c'è
la via, ovunque il pertugio.
Allora dimentichi, non c'è più niente, c'è solo l'evento, c'è solo l'aderenza,
c'è solo il sentire.
Lo zen in movimento è quell'aderenza tale che soggetto e oggetto scompaiono. È
il semplice fare quello che sto facendo, quello che devo fare nella più totale
immersione in esso, dove la mia persona e quell'esso si annullano. Appena invece
ci penso, ricado nella dualità, nella fatica, nell'elaborazione mentale. Appena
ci penso, sono, è - e allora ecco la frattura e la separazione: nasce il
problema.