"Essere liberati dalla sofferenza" (Bernie Glassman)
"Essere liberati dalla sofferenza" (Bernie Glassman)
Continuiamo a trarre brani da Cerchio infinito - La via buddhista
all'illuminazione di Bernie Glassman. Ricordiamo che questa prima parte del
testo è un commento al Sutra del Cuore.
"E fu liberato dalla sofferenza.
[...] Essere liberi dalla
sofferenza non significa che non ci sia più sofferenza! Comprendere che
siamo illuminati – e che nello stesso tempo ogni cosa così com’è è illuminata –
non mette davvero fine alla sofferenza, o ciò che chiamiamo male, né pone fine
ai problemi in generale. Ciò che comprendiamo è che la sofferenza stessa, il
dolore stesso, è l’agire della Via Illuminata. Avendone coscienza, ci prendiamo
cura della sofferenza, ci prendiamo cura del dolore.
Facciamo un esempio: sono illuminato e mi capita di tagliarmi una mano. Essere
illuminato non significa che eventi del genere non mi succedano. La mia mano è
ferita e il sangue sgorga, questo è l’agire della Via Illuminata. Il fatto che
il sangue fuoriesca quando mi taglio la mano è prajna, saggezza. Cosa faccio
subito? Mi prendo cura della mano. Non considero tutto questo positivo o
negativo, bene o male: me ne prendo cura. Non più costretto nel mio concetto di
ciò che è, entro in contatto direttamente con la realtà. Non evito la realtà
lasciando sanguinare la mano. Entro in contatto con il fatto stesso, il taglio
che sanguina, e non con concetti che lo riguardano: se è bene o male, perché è
accaduto a me, eccetera. Mi prendo cura del taglio. Questo significa «essere
liberati dalla sofferenza».
[...] Fare prajnaparamita significa entrare nel mondo di ciò che è, perché in
quello stato siamo l’Unico Corpo e non abbiamo scelta. Fare ed essere non sono
più separati per noi (come lo sono invece quando dipendono dalla nostra
concettualizzazione), sono essere-fare. [...]
Vorrei dire di più sul significato dell’illuminazione. Possediamo molti concetti
che ne definiscono le caratteristiche. Uno di essi ha a che fare con il
cosiddetto non attaccamento della persona illuminata. Se mio figlio sta
soffrendo atrocemente, io, dal momento che sono illuminato, divengo
quell’atroce sofferenza. In altre parole, essa non soltanto ha un effetto su di
me, ma produce un enorme effetto su di me, perché non esiste separazione tra me
e mio figlio. Prima della realizzazione, facevo domande quali: «Come posso
fermare tutto ciò?» oppure: «Perché questo accade a mio figlio?». Dopo la
realizzazione, faccio semplicemente del mio meglio per prendermi cura delle
cose. Non mi limito ad accettarle, me ne prendo cura.
Se mentre guido, vedo per strada un cane morto, posso pensare: «Grazie a Dio,
non si tratta di me». Il cane morto fa sorgere pensieri di morte, divento preda
del dolore e della sofferenza. Questa è non accettazione di quel che accade.
Pensando di essere separato, posso compiere varie scelte: scappare via o
fermarmi e seppellire il cane, ma un gran numero di concetti penetrano nella mia
mente e mi impediscono una risposta diretta. Una volta compreso che tutto è un
Unico Corpo, invece, [...] me ne prendo cura. Non attaccandomi al concetto di
morte, ma agendo. Il vero non attaccamento consiste nell’essere né separati né
attaccati a ciò che è. Anziché vivere nel mondo delle idee e delle sensazioni
riguardo a quel che accade, viviamo nel mondo dell’azione.
Siamo come uno specchio. Qualunque cosa si trovi di fronte allo specchio è lì;
quando se ne va, se ne è semplicemente andata. [...] Ci occupiamo di ciò che è.
[...] Un detto interessante parla di un cavallo: è meglio cavalcare un cavallo
nella direzione in cui sta andando. Non c’è molta scelta. Ciò significa totale
accettazione di ciò che è, ma senza implicare l’inazione. [...] Abbiamo tutti una bomba a orologeria
dentro di noi: siamo una bomba a orologeria. Sto per morire proprio tra
un istante, dunque faccio del mio meglio in questo istante. Penso che tutti
dovremmo agire al nostro meglio. Dire che ogni cosa cambia significa che ogni
cosa sta per morire proprio in questo preciso istante. Dunque, in ogni momento
dobbiamo fare del nostro meglio, come se fosse l’ultimo. Infatti lo è!" (dal
Capitolo II).