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"Quando c'è il dolore non c'è l'amore. Come può esserci amore nel momento in cui soffrite e siete tutti presi dalla vostra sofferenza? ... Che cos'è il dolore? È per caso autocompassione? Vi prego di domandarvelo. Non stiamo dicendo che lo è o che non lo è ... Che il dolore sia provocato dalla solitudine - dal sentirsi disperatamente soli e isolati? ... Possiamo osservare il dolore come concretamente si presenta in noi e restare con esso, tenerlo con noi e non distogliercene? Il dolore non è diverso da colui che soffre. La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose. Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa. E con la fine del dolore c'è la passione; non il desiderio, non l'eccitazione dei sensi, ma la passione" (da Washington D.C. Talks 1985). La centralità di questo brano è nella frase: "Il dolore non è diverso da colui che soffre". La cosa terribile, a suo modo, del dolore non è semplicemente il dolore in sé, ma il fatto che sia impossibile fuggirlo. Ogni volta che si presenta, la speranza in noi si riattiva: ci sarà un modo per correre ai ripari... Ma è sempre la stessa storia: non puoi fare nulla. Vuoi scappare, ma è solo un vano tentativo. Reagire al dolore è solo ulteriore sofferenza. Una nuova possibilità, poco indagata, ancor meno praticata è guardarlo, penetrarlo, investigarlo a fondo, analizzarlo con precisione chirurgica. Così: la liberazione. Alla lezione di lunedì abbiamo iniziato con la consapevolezza
del respiro. A conclusione della lezione
abbiamo letto e commentato un altro brano tratto dal Denkoroku (clicca
qui).
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