Giovedì abbiamo continuato a leggere da L'audacia di vivere di Arnaud
Desjardins:
"Ciò che caratterizza l'io dopo la nascita è di essere
contro. Nasce, cresce, si sviluppa a condizione che possiamo resistere a
qualche cosa. Si forma dal momento in cui il bambino comincia a opporsi al padre
e alla madre. Per esempio lo stadio anale, definito aggressivo, rappresenta una
fase della formazione dell'io in cui il bambino si solleva contro la madre. E
nella misura in cui figure importanti vi hanno tenuto testa, l'introiezione di
influenze esterne o di ricordi traumatici fa sì che condanniate una parte di voi
stessi. [...]
Badate che la parte attiva della sadhana [= la pratica spirituale] non fa
che fortificare l'io che continua così la sua lotta di sempre: devo battermi
contro le mie associazioni di idee e ridurle al silenzio; mi disturbano nella
meditazione, le sconfiggerò concentrando l'attenzione sul respiro e vedremo chi
sarà il più forte.
[...] Il discepolo [...] deve [...] diffidare della trappola sottile che
minaccia ogni ricercatore spirituale e che consiste nel rinforzare il sé, un
super-io con un'aureola di spiritualità.
[...]
Dal punto di vista psicologico, siamo stati avvelenati perché ci hanno insegnato
a condannare certi aspetti della nostra verità, come la collera, quella che ad
esempio coglie un bambino se trova difficoltà in un gioco, o altre pulsioni che
si manifestano allo stato grezzo nella prima infanzia. Quindi il bambino si è
abituato a entrare in conflitto con il suo personale slancio vitale, con la sua
forza vitale fondamentale [...].
[...]
Swamiji diceva: «Nessuno dona, nessuno riceve, ci sono soltanto il donare e il
ricevere» [...]. L'io svanisce nella non-dualità con l'azione. Così come ci
esercitiamo a essere una cosa sola con la respirazione in modo che rimanga
soltanto il respiro cosciente, uno, non due, allo stesso modo se un uomo bacia
una donna, c'è soltanto kissing, l'atto di baciare [...]. Ciò che Swamiji
mi spiegava non ha valore soltanto in materia sessuale, [...]. Io mi ricordo
anche di un'immagine che mi dava Swamiji: «Non io guardo l'albero, ma
l'albero è guardato». L'albero è guardato, non vedo più il mio albero
in funzione dei miei antecedenti, del mio contesto culturale, del mio inconscio.
[...] Non più «io carezzo la donna», ma «la donna è carezzata» e io, in quanto
io separato, sparisco. Entro in contatto con il movimento stesso della vita.
[...]
Niente impedisce alla shakti di esprimersi nell'embrione, poi nel feto e
di dar vita a un neonato; l'embrione non ha paura di crescere, di prendere
forma. La tragedia degli esseri umani dipende dal fatto che questa profusione di
energia si trova a poco a poco bloccata, rivolta contro se stessa. Invece di
andare esclusivamente nel senso dell'espansione, dell'intensità, della
partecipazione alla vita dell'universo, si determinano due fratture: da una
parte uno strappo, che si accentua sempre più con l'età, tra noi, intendo
ciascuno di noi preso individualmente, e la totalità dell'universo: è ciò che si
definisce il senso dell'io. E dall'altra parte una frattura tra noi e la potenza
della vita che è in noi, dovuta a repressioni, divieti, necessità sociali. E
poiché questa educazione costituita da alcuni 'no' non è ricevuta coscientemente
e non è neppure percepita come giusta, la vita così potente che portiamo in noi
si divide contro se stessa. [...] Una parte dell'energia continua a cercare
l'espansione, e un'altra parte, dentro di noi, blocca, divide, reprime. E, di
conseguenza, sentiamo di non partecipare più alla totalità, non sentiamo più che
la stessa vita che anima tutto l'universo anima anche noi" (da L'audacia di
vivere, cap. 3 e cap. 6).
Abbiamo iniziato con la consapevolezza del respiro.
Poi la camminata.
Infine: la consapevolezza, da seduti, delle sensazioni del corpo, dalla testa ai
piedi.
A conclusione della lezione del lunedì, abbiamo continuato a
leggere brani tratti dal primo volume dei Saggi sul Buddhismo Zen di Daisetz
Teitaro Suzuki (clicca
qui).