"Essere così non serve, non essere così non serve" (Dal
Denkoroku)
Shitou disse: “Essere così non serve, non essere così non serve: essere così o
non essere così non serve affatto”. A questo punto non c’è luogo in cui
collocare il sé, e l’altro non è una questione in dubbio: perciò Shitou lo
spiegò in questi termini. Ma Yaoshan si afferrava ancora all’inafferrabile, e
quindi non conosceva il valore delle parole. Si fermò e riflettè”.
Cos’è il dualismo?
Essenzialmente è spaccare la realtà, dividerla, frantumarla. Ora: la realtà è
quella che è, e resta sempre se stessa e sempre diversa, ma mai separata da sé.
È compatta, infinitamente piena e intrisa di sé. Il pensiero agisce su di essa,
la legge in un certo modo, e così la seziona, emana sentenze, la frammenta in
categorie.
Allora uno dice: cosa posso fare per non essere dualista? Come posso pormi per
accogliere la realtà nella sua autentica, originaria verità? Ma ecco ancora il
dualismo! Capito, no? Se il dualismo è bianco/nero, vero/falso, bene/male, non
c’è dualismo anche nel ritenere che da una parte via sia – appunto –
l’atteggiamento dualista e dall’altra quello liberatorio? È come dire: adesso
medito, così poi raggiungo l’illuminazione. È la stessa cosa, è evidente. Se io
metto da una parte il dualismo e dall’altra il non-dualismo sono ancora
terribilmente dualista. La questione non è quindi eliminare il dualismo. Il
dualismo c’è o non c’è? Certo che c’è. Può piacerti o non piacerti: non importa,
perché c’è. La realtà non è tutto quello che è? E il pensiero è? Sì, anch’esso
fa parte della realtà, anche quello che pensi in questo preciso istante. È tutto
nella realtà. Anche il pensiero che divide, che discrimina, che separa. Non è
una proprietà della realtà in quanto tale, ma lo è della realtà che comprende
anche i pensieri, le sensazioni, ecc.
In questo senso: “Essere così non serve, non essere così non serve ecc.”. Se
vuoi metterti da una parte o dall’altra, agisci ancora con l’idea di un sé in
mano (il tuo), da poggiare opportunamente sopra un piedistallo, invece che per
terra. Sei ancora centrato, usi il sé come un oggetto tra i tanti, lo cosifichi,
pratichi con un egocentrismo malcelato. Pratichi pensando: “Così elevo il mio
sé”. Ma non c’è alto, non c’è basso. C’è solo il flusso, la dinamicità del
reale, la non permanenza. Fissarsi su un punto: perché? Volere stabilirsi su un
certo piano: non va contro la realtà stessa? Osserviamo la natura: non si
stabilisce, non si ferma, non sceglie qui o là, non decide cosa sia meglio per sé.
Eppure: l’albero che cresce, il fiore che sboccia, l’erba ... Non è tutto
così... naturale, perfetto, silenzioso? Quali pretese ci sono qui? Quali
ricerche? Quali problemi da risolvere? È l’idea del problema che ci mette in
cerca. “Non c’è luogo in cui collocare il sé”: qui è detto tutto. Basta questo:
lo capisci, lo comprendi, lo senti, lo fai tuo. Ecco fatto, tutto. A questo
punto scompaiono tutti i dubbi; l’alterità non è più un problema che prema per
la sua soluzione. Lasci essere l’alterità alterità, quando non c’è più nessun sé
che si opponga ad essa, nessun sé che dica: “io!”. Lasci essere quello che è, e
in questo naufragio nell’indeterminato, nell’inconoscibile, la perdita e il
ritrovamento sono tutt’uno.
Allora c’è questa situazione di apertura alla vita, in cui nulla viene rifiutato
e nulla viene accettato. Tutto viene riconosciuto. Quando uno dice: “Ecco”. Qui:
lo splendore, il mistero. Lo sbaglio di Yaoshan sta proprio nel non cogliere,
nel non fermarsi, nel non stabilirsi in questo "ecco". L'inafferrabile è
inafferrabile: appena lo vuoi fare tuo, lo vuoi capire, cadi nella rete
dell'ego, che tratta tutto questo - al limite - come una complessa questione
filosofica da risolvere. Yaoshan si ferma e riflette, e così si distrae dalla
chiamata della realtà, ritarda l'appuntamento con lo sposalizio con la realtà.
Dove non c'è più nessun Yaoshan e nessuna realtà.