Da Itinerari zen e oltre di Domenico Kogen Curtotti - 1
la meditazione come via
tra vipassana e zazen




 

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Da Itinerari zen e oltre di Domenico Kogen Curtotti - 1


Leggiamo da questo testo di Domenico Curtotti, Itinerari zen e oltre, alcuni brani dalle lettere che il maestro Dai Do Strumia ha scritto all'autore:

"Io sono in zazen e so che l'unica cosa che devo fare è rimanere sveglio, attento, consapevole di essere seduto e nient'altro. Senza nessuno scopo, senza distrazione, mantenendo l'attenzione costante al fatto di essere seduto in zazen. Questo tipo di attenzione non dura molto, perché la mente si annoia e comincia a giocare con se stessa per passare il tempo; ad esempio, si crea storie mentali attraverso l'immaginazione, la fantasia, o suggerite da rumori esterni. E così la testa va via, e si perde la consapevolezza di essere seduti in zazen. Ma a un certo punto si attiva un meccanismo interiore, una lucina che richiama al presente, al qui e ora, e permette di riprendersi e riportare l'attenzione alla postura. È difficile durare veramente in zazen più di cinque o sei minuti; nell'arco di cinquanta minuti si può rientrare in media quindi, venti volte. La pratica consiste proprio nell'imparare a ritornare al qui e ora sempre più velocemente [...]. È fondamentale riprendere contatto col proprio corpo e ricominciare da capo. [...]
È fondamentale comprendere che lo Zazen non è qualcosa che si fa. Non è un'azione da cui aspettarsi dei risultati o degli effetti [...].
Zazen (Shikantaza) è la manifestazione stessa dello spirito buddhico, a patto che chi lo attua sia consapevole del fatto che è lo Zazen che manifesta se stesso attraverso la mia carne, le mie ossa, il mio sangue e i miei nervi. [...]
All'interno di questo processo [...] soprattutto non c'è la possibilità di produrre pensieri come: «Ecco, sto facendo veramente Zazen!». [...]
Non è il Satori, non è il Nirvana; è aldilà dell'aldilà del qui e ora vissuto pienamente, nella consapevolezza che pratica e illuminazione veramente coincidono, perché sono reciprocamente l'uno la diretta emanazione dell'altro. [...]
Oggi io penso che la fede consista nell'abbandonare qualsiasi idea legata al sogno di qualsivoglia realizzazione, essendo comunque anch'essa impermanente e relativa. Abbandonarsi alla pratica per se stessa e mirare al di là di vita/morte, dove anche la fede cessa di avere un significato, è realizzare la grande risposta:
«Hai mangiato il tuo riso?».
«Sì, maestro!».
«Bene! Allora vai a lavare la tua ciotola!»" (pp. 28-29, 36-37, 42).