Una casa vuota
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Una casa vuota


Leggiamo un koan tratto dalla raccolta Tetteki Tōsui:

"Un monaco chiese a Lung-ya: «Che cosa raggiunsero gli antichi maestri quando entrarono nella fase finale?». «Erano come scassinatori che si introducono di soppiatto in una casa vuota», fu la risposta".

Qui il monaco pensa ai maestri come a dei personaggi dalle capacità straordinarie, come individui completamente separati dalle persone 'normali'. Per di più egli vuole raggiungere la comprensione finale, essendo però ancora a una fase precedente: è impaziente, pretende di arrivare (ma dove?).
Appunto: dove? Per questo gli viene detto: "una casa vuota". La vuotezza è la condizione primordiale di una casa, la quale viene riempita in un secondo tempo: casa uguale mente, è evidente. Una casa vuota significa nulla di particolare, ma anche stupore, esterrefazione, sbigottimento: perché non c'è ladro che entri in una casa per rubare e vedendola totalmente vuota non provi disorientamento e confusione. Un ladro è tale solo in misura nella quale si fa predatore di ciò che non è suo; ma quando capisce che non c'è nulla da saccheggiare, allora il suo essere ladro si annulla all'istante. Così anche i maestri antichi di cui ci parla qui il koan: erano scassinatori che nel momento nel quale entrarono nella casa vuota, cessarono di essere tali. Cerchi qualcosa, poi entri nella casa vuota e ti stupisci: il tuo cercare era vano, c'è solo una casa vuota. O meglio: il tuo cercare ha avuto una sua funzione, che è l'unica che gli sia consentita, cioè l'auto-elidersi. La realizzazione è la piena interiorizzazione della verità del non-cercare.
Per questo Genrō, il compilatore di questa raccolta di koan, commenta il presente koan con la seguente poesia:

Camminò sulla lama di una spada;
mise il piede sul ghiaccio di un fiume gelato;
entrò nella casa disabitata;
il suo desiderio di rubare cessò per sempre.
Tornò alla propria casa,
vide i bellissimi raggi del sole del mattino,
e osservò intimamente la luna e le stelle.
Camminò nelle strade con facilità,
godendosi la dolce brezza.
Alla fine aprì la sua stanza del tesoro.
Fino a quel momento non aveva mai immaginato
di possedere quei tesori fin dall'inizio.

Ma attenzione: qui si tratta di metafore, no? Cioè non cadiamo nell'errore di intendere il tesoro come 'qualcosa': così facendo, cadremmo nello stesso errore del ladro. Non si tratta di un gioiello che non trovi nella casa che sei andato a svaligiare e che poi scopri essere in qualche angolo del tuo appartamento: no, si tratta di una casa vuota e nient'altro! Altrimenti il personaggio della poesia non riuscirebbe a contemplare i raggi del sole mattutino, la luna, le stelle...: starebbe lì in casa, succube del suo gioiello (il suo tesoro), contemplandolo dall'alba al tramonto. Il fatto che qui ci sia il riferimento al sole del mattino, alla luna e alle stelle della notte significa l'eliminazione di qualsiasi atteggiamento totemico, idolatra: non una cosa o un fenomeno da contemplare, da preferire, di cui partecipare pienamente, ma l'intero flusso della realtà da vivere nella sua sinfonica bellezza. Quando c'è l'alba godi di essa, quando arrivano le stelle godi di esse, e così via. Non puoi fare altro. Cosa vorresti? Pensare alle ferie appena scorse durante le ore in ufficio?! Che mente in schiavitù! Ed è altrettanto significativo che si parli - nell'ultimo verso - di tesori al plurale. Il solito discorso: li possiedi non perché ne fai collezione, bensì perché riesci a fruirne liberamente. Cogli la bellezza anche della loro impermanenza e quindi della loro preziosità.
Per non soffermarsi su quella splendida frase, che dovrebbe riverberarsi con mille sfumature in noi che facciamo l'esercizio della camminata in meditazione: "Camminò nelle strade con facilità". Che leggerezza, che completezza, che senso di presenza! Cosa manca?