"Il corpo è la nostra carne abitata" (Chandra Livia Candiani)
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"Il corpo è la nostra carne abitata" (Chandra Livia Candiani)


L'io si produce come difesa dalla vita naturale, istintiva, animale dell'essere umano (super-io lo chiamava Freud), sotto la pressione della famiglia, dell'educazione, della cultura. Ma lo stesso io è difesa anche da un mondo che si inizia ad esperire come altro da me e fonte di pericolo. Wilhelm Reich lo spiega perfettamente: “Nel conflitto tra istinto e principi morali, tra ego e mondo esterno, l'organismo è costretto a «corazzarsi» tanto contro l'istinto quanto contro il mondo circostante; è una rigida corazza che si risolve inevitabilmente in una limitazione delle facoltà vitali e di cui soffre la maggioranza degli uomini: è come se tra loro e la vita si innalzasse un muro. È in questa corazza che risiede la ragione chiave della solitudine di tanti uomini in seno alla collettività”.
Qual è la cura a quest'impasse? Questa separazione tra me e la mia naturalità, questa contrapposizione tra me e il mondo si riflette nel mio differenziarmi dal corpo, che diviene oggetto, mio, luogo di dominio così come lo è l'ambito dei miei istinti. Tornare ad esso è sentirmi, là dove ho sostituito il sentire con il sapere: “Sentite come respirate, come state in piedi, come state seduti, come vi muovete, come parlate: è tutto lì” (Stanley Keleman).

Questo sentirmi corpo si differenzia infinitamente dal mio osservare il corpo: in questo caso vi è una distanza, ancora una separazione (il soggetto osservante e il corpo osservato), nel primo caso invece vi è un'incarnazione senza più un io (un soggetto, un osservatore) distinto da questa incarnazione. Allora è il più abissale luogo di intimità: “Possiamo avere, essere carne, senza avere, essere corpo. Il corpo è la nostra carne abitata, sentita, percepita con attenzione, precisione, profondissima intimità” (Chandra Livia Candiani).

Senza sosta l'io aveva sognato la risoluzione delle mie zone di dolore attraverso il pormi in distanza rispetto ad esse. L'abitazione più radicale della mia corporeità mi chiama invece allo sposalizio con la sofferenza. Jiddu Krishnamurti: “Ciò con cui vi trovate è questa cosa, la tortura quotidiana, l'ansia quotidiana. E capirla, essere in contatto con essa, vuol dire non mettere spazio tra voi stessi come osservatori e la cosa, cioè la vostra disperazione”.