Un brano da Mente zen mente di principiante di
Shunryu Suzuki-roshi:
"Dogen-zenji diceva: «Studiare il
Buddhismo è studiare se stessi. Studiare se stessi è dimenticare se stessi».
[...] L'intento dello studio del Buddhismo è quello di studiare noi stessi e
dimenticare noi stessi. Quando dimentichiamo noi stessi, siamo effettivamente la
vera attività della grande esistenza, ossia la realtà stessa. Quando ci
accorgiamo di questo fatto, in questo mondo non c'è più problema di sorta, e noi
possiamo gioire della vita senza provare alcuna difficoltà. Il fine della nostra
pratica è raggiungere la consapevolezza di questo fatto".
Ci sarebbero tante cose da dire su questo
tema... Azzardiamone solo qualcuna.
Qui prima di tutto c'è un approccio molto
pratico al Buddhismo, che vuole essere anche il nostro. Il Buddhismo non come
una religione tra le altre, oppure come una serie di precetti cui abbandonarsi
inconsapevolmente; neppure il Buddhismo come una novità fascinosa in cui
baloccare il nostro piccolo ego sempre in cerca di nuovi giochini, anche
intellettuali o spirituali.
Poi si parla della dialettica tra ricerca
di Sé e dimenticanza di se stessi. È una dialettica che va capita e sempre più
penetrata, vissuta. Altrimenti si cade in contraddizioni insuperabili. Cioè: o
siamo alla ricerca del sé oppure ci poniamo come obiettivo lo svuotamento del sé
medesimo. Be', prima di tutto è da ricordare che non siamo alla ricerca di
alcunché e che non ci poniamo nessun obiettivo davanti a noi. Non c'è colui che
ricerca, non c'è oggetto ricercato e non c'è nemmeno l'azione della ricerca. Poi è da dire che
qui ricerca del sé è come dire dimenticanza del sé medesimo, come ci ricorda la
citazione di Dogen. Ovvero: conoscenza di sé va di pari passo con
dimenticanza di sé, abbandono fiducioso.
C'è sempre il rischio di cadere in una sorta di egocentrismo spirituale, di
contrattura di noi stessi: troppo tesi nella nostra interiorità, troppo chiusi,
un nervosismo che vede qualsiasi segnale esterno come una distrazione rispetto
alla coltivazione del sé. E invece l'attenzione al sé, l'indagine del sé deve
condurre a un abbandono, a una quieta dimenticanza di se stessi: è l'entrare in
una dimensione nella quale non c'è più qualcuno che fa qualcosa, ma solamente il
fare stesso. È come l'esempio, che abbiamo già fatto, del millepiedi: lui non ci
pensa, ma cammina perfettamente, coordinando in un modo sublime tutti i suoi
piedini. Ma se gli chiedi come faccia, allora si ferma, comincia a pensarci, e non
riesce a muoversi più!
Un analogo discorso sarebbe da farsi per quanto riguarda l'attenzione. C'è
l'attenzione cosciente, intesa come atto di volontà: cerco di essere attento al
respiro, alle sensazioni, ecc. Ma è solo un momento, un passaggio obbligatorio.
C'è un'altra possibilità: cioè un'attenzione quieta, calma, senza sforzo, che
semplicemente come uno specchio riflette la realtà. Uno specchio non decide di
riflettere, lo fa e basta: un'attenzione dunque che riceve semplicemente, che
svuotata di tutto non può che essere completamente squadernata sull'intera
realtà.
Poi - ed è la cosa più importante - è evidente che la ricerca di sé parte con il
presupposto che si è in cerca di qualcosa, di un 'omino' dentro di noi, di un
ente - per quanto nascosto. Per scoprire però che non c'è nessuna 'cosa' di
questo tipo: che c'è solo silenzio, assenza, vuoto. Per questo "studiare se
stessi è dimenticare se stessi".