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"Quello che c'è adesso è quello di cui ho bisogno" (Eric Baret)
Qualsiasi sistema, filosofia, maestro, religione, spiritualità, mistica, testo, pensiero che ponga il raggiungimento di uno scopo come la conditio sine qua non per la felicità, verità, salvezza, nirvana, ecc. mi incanala a una miserevole vita di ricerca infinita. Qualsiasi sistema, filosofia, maestro, ecc. che mi dica: c'è una felicità, una verità, una salvezza... il cui raggiungimento è il tuo obiettivo mi fa entrare nel mio inferno mentale. Cosa è l'inferno? È volere ascoltare un'altra parola rispetto a quella che ora la realtà mi sta dicendo. È vivere nella mia fantasticheria, nel sogno: "Se non ho il vezzo di aspettarmi qualcosa dalla vita mi accorgo che quello che c'è adesso è quello di cui ho bisogno - per la buona ragione che non c'è altro, che è la mia sola realtà, che tutto il resto è immaginario" (Eric Baret). La tradizione che più fortemente si è avvicinata a questa intuizione è lo zen con il suo concetto di mushotoku (senza scopo). Quando la pratica non è più una strategia per raggiungere un obiettivo più o meno nobile, più o meno spirituale, allora qualsiasi momento della realtà, qualsiasi evento che si sta in me e attraverso di me manifestando rivela la sua già in atto verità assoluta. La realizzazione non è più l'esito di una qualche azione, ma è la sostanza di qualsiasi azione: quella unica, semplice azione che sta accadendo ora (hichinyo zanmai, “samadhi in una sola azione”). "La nostra pratica non ha nulla a che fare con 'Oh, dovrei essere buono, dovrei essere gentile, dovrei essere questo o quello'. Sono chi sono ora. E quello stato dell'essere è il Buddha" (Charlotte Joko Beck). Quante volte mi accorgo invece di fare della pratica un fantasia di realizzazione? All'io piace tanto giocare di immaginazione.
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