Stamattina nel mio dormiveglia, che di solito è sofferto e angoscioso, ho
provato ad avere il sopravvento sui pensieri che mi investivano. Non so perchè
l'ho fatto, visto che in quelle condizioni, in genere, non posso far altro che
subire passivamente quel turbinio di sensazioni spiacevoli, che sembra senza
alcuna via d'uscita.
Invece qualche coincidenza neurale ha voluto regalarmi, stamattina, un appiglio
di attività: ho potuto contemplare la mia angoscia da lontano. E ho compreso che
pensieri, sensazioni e sentimenti, per quanto siano angosciosi o leggeri, sono
sempre legati al linguaggio, cioè a una loro formulazione verbale.
Ho intuito questa verità: se non c'è linguaggio non c'è stato d'animo. Pur
essendo stato sempre convinto del contrario, cioè di una radicale indipendenza e
precedenza delle emozioni sul linguaggio, questa volta ho voluto percorrere la
via opposta, secondo cui non posso essere «preoccupato» se nella mia mente non
c'è la formulazione a parole del motivo e della constatazione del mio disagio.
È possibile? Mi è parso di sì. Nel mio dormiveglia, venivo come investito da una
catena di frasi ininterrotta; una volta formulate, una volta che mi avevano
raggiunto, sganciavano su di me il loro potenziale emotivo.
Una lunga catena di frasi che ora avevo il privilegio di contemplare e
rappresentare come una fila di lettere che spuntavano da dietro l'orizzonte di
un pianeta sferico, senza alcun potere emotivo su di me. Io sono sempre stato
qui dove le frasi arrivano già compiute; mi sono sempre immerso in esse, ho
sofferto per ciò che dicono.
Ma stamattina ho voluto risalire il fiume fino alla sorgente, fino all'origine
del mio linguaggio e mi sono trovato prigioniero di un paradosso. Non potevo
dire: «Ora vado dove ancora il linguaggio non c'è». Potevo andare oltre
l'orizzonte sferico purché abbandonassi il linguaggio, il che equivaleva ad
abbandonare la possibilità di descrivere l'esperienza che stavo per fare, di
ricordarla, di conoscerla. Ma ancor di più equivaleva ad abbandonare il mio
stesso Io, il mio essere Soggetto, verso un vuoto totale: assenza di parole,
identità, emozioni.
Sono tornato subito indietro, sulla riva del fiume impetuoso di frasi, gravide
di emozioni, e ho riflettuto allora su chi io fossi veramente: quel turbine di
parole che meccanicamente si creavano secondo rapporti di associazione? Oppure
quel viaggiatore che voleva staccarsi da esse per tornare alla sorgente del
fiume? Oppure ancora il vuoto che mi circondava?
Tutte e tre le cose insieme.
Ho usato la parola «mistero», perchè è una parola di origine antichissima che si
riferisce al «non detto»,a ciò che non si può dire perchè fuori dal linguaggio.
Ma ciò che a me interessa mettere in evidenza dell'esperienza appena descritta,
non è tanto la relazione problematica tra emozioni e parole, quanto l'esistenza
di un immenso scenario vuoto dove esse si incontrano: dentro di noi, nella
nostra psiche, c'è un nucleo vuoto, dove nessuna parola può attecchire, dove non
esistono emozioni, dolore, ma che tutto precede; nel vuoto non c'è movimento,
non c'è spazio né tempo,non c'è pensiero.
Nel vuoto che è dentro di noi non c'è spazio per la nostra identità; il vuoto
circonda silenziosamente il fiume delle nostre parole, così come i muti spazi
della volta celeste abbracciano indistintamente stelle e pianeti.
Credo che per me sia importante riuscire a farmi vuoto e trovare rifugio in
esso, prima di ogni esecuzione. Già alcuni giorni prima di ogni concerto, sento
le mie energie ritirarsi, la mia capacità linguistica si annulla. Mi è difficile
persino parlare. Il vuoto si fa strada da solo, per lasciar spazio
progressivamente alla musica e all'emozione.