A volte l’esperienza ci mostra come
il vivere intensamente corrisponda a un momentaneo
abbandono della nostra facoltà di classificare,
controllare, giudicare, cioè di pensare.
Vivere la vita o scriverla, esserne partecipe o
pensarla: queste sono alternative esistenziali con cui
gli artisti e i filosofi fanno i conti tutti i giorni.
Ma il segreto è non pensare.
Il pianista cerca i suoni e per farlo deve anche non
pensare. Ogni suo calcolo infinitesimale precede e segue
l’esecuzione, nella fase di studio, memorizzazione e
prova, nella razionale gestione del tempo che ha a
disposizione, nella comprensione del testo che è
adagiato sul leggio. Ma quando è abbandonato alla dolce
carezza dei tasti, sperimenta la solitudine totale ed è
in grado di trascinare l’ascoltatore nella dimensione
del non pensare, del silenzio, del recupero di sé. Egli
stesso si rende conto che il concerto è passato in un
attimo e se ne meraviglia: per un piccolo arco di tempo
ha bevuto al nettare della vita e ne è stato talmente
inebriato da non ricordare nulla, così come chiunque
altro che fa con passione i gesti che ama.
Il non pensare è legato a ogni tipo di ritualità, alla
ripetizione di gesti o parole che aiutano ognuno di noi
a uscire dalla gabbia grigia e fredda del pensiero.
Quando un uomo non pensa il suo
rumore principale diventa quello del cuore e del
respiro, uniti insieme in una straordinaria poliritmia
ancestrale. Due cicli discordi interagiscono, creando
curve nuove e irregolari, parabole vertiginose o piane,
che alimentano il fuoco dell’emozione. Un motore che ha
due pistoni diversi, un elastico che si tende
continuamente da più parti, assumendo strane forme, una
trottola mal bilanciata che inventa, finché è in
equilibrio, evoluzioni circensi.
Ogni uomo, quando non pensa, suona, bagna, sogna, odora,
scalda, cerca il contatto con le cose che vibrano, che
restano umide, che inebriano, che profumano e scottano.
A me piace l’acqua, avvolgente, che rende opaca e
lontana ogni cosa, annullando il tempo misurato, e che
spinge in superficie con forza e grazia, o ingloba
silenziosa il corpo che ha perso il suo spazio.
L’uomo deve tornare a essere soggetto assoluto della
propria esistenza, vero punto di partenza di sé. Come si
concilia tale visione con l’abbandono?
Credo che la grande scoperta di questo strano tempo sia
che abbandono e attività non sono in rapporto
antitetico.
In realtà dobbiamo evitare di strozzare il torrente
impetuoso che è in ognuno di noi, dobbiamo evitare
l’inibizione a tuffarci nella danza delle cose, fosse
anche il traffico cittadino.
Ma l’inibizione nasce nel pensiero solitario: la nostra
piccola mente non ce la fa a contenere un universo che
danza, e allora concepisce il concetto dell’
irraggiungibile, dell’impossibile, della delega a forze
altrui.
Invece il non pensare è apertura e paradossalmente è
comunicazione profonda con gli altri: ora che siamo di
fronte, dimentichiamo i nostri ruoli, i nostri nomi e
riconosciamoci come esseri umani, come miracoli. Un
essere umano, chiunque sia, è il culmine cui la natura è
giunta e da essa si differenzia per l’estrema
imprevedibilità, per la misteriosa e prodigiosa
presenza.
Forse è possibile che più universi umani possano
comunicare, al prezzo dell’abbandono di ogni costruzione
convenzionale, residuo del pensiero; forse comunicare
significa essere presenti l’uno all’altro, tramite tutti
i canali di cui l’umana e poliedrica personalità
dispone, dalle azioni al calore corporeo.